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SHOUT. Il concetto dell’illustrazione (con intervista)

Un ibrido tra un racconto, una recensione e un’intervista.

Nella suggestiva penombra dei sotterranei di Palazzo Chiericati si terrà fino all’8 dicembre prossimo, il primo evento di Illustri Festival, ALESSANDRO GOTTARDO (IN ARTE SHOUT) SELECTED WORKS, sèguito dell’esposizione dello scorso anno (curata anch’essa dall’illustratore Ale Giorgini) che raccoglieva per la prima volta per Vicenza, all’interno della Basilica Palladiana, “undici illustratori under 40 che il mondo ci invidia”.

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Alessandro Gottardo aka Shout

Uno di questi era proprio Shout, che torna a Vicenza con una selezione di lavori che ripercorrono la sua carriera di illustratore dal 2005 al 2014. Un viaggio a ritroso lungo le quattro sale interrate, attraverso opere che vanno dalle ultimissime tavole (con inediti), elaborate in digitale, passando per le acquetinte e i ritratti, fino ai disegni a penna datati 2011, breve ritorno all’amato analogico delle origini.
Shout, un uomo schivo e riservato, ha scelto la caotica Milano per vivere e lavorare.

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LA SOTTILE LINEA TRA IL REALE E L’IRREALE. Da Carver a Hanson

Facciamo che parliamo un po’ della concatenazione degli eventi. E’ tutta la vita che trascorre così, no? Solo che a volte non ce ne rendiamo conto, non facciamo molto caso a quanto certe faccende siano legate tra loro. Ad essere onesta non ho ben capito se in maniera del tutto casuale, o se invece sono io – a posteriori – a unire nella mia mappa mentale tutti quei puntini che corrispondono ai singoli eventi e trovarvi infine un disegno leggibile che assomiglia vagamente alla mia vita.

Comunque, esce Birdman al cinema, qualche mese fa. Al diavolo il grande schermo, me lo sono guardato tutto d’un fiato sul divano di casa. Il monitor del computer certo non rendeva giustizia ai voli pindarici dell’uomo uccello, ma sono riuscita comunque a farmi ingoiare dai dialoghi, dalle scene ben oltre la cortina del surreale, dai gesti scriteriati di un uomo al limite della sua esistenza.
Thomson che rientra in mutande nel suo teatro, dopo essere stato sbeffeggiato dalla folla, e mima la pistola che non ha puntando addosso alla sua ex moglie e a quel belloccio di Norton, a letto assieme sul palcoscenico, le nude dita messe a elle, non riesco a togliermelo dalla mente. Per me fu quello il climax del film. La tragedia nella tragedia. Una tragedia fatta a ruota, che continua a girare e a tornare su se stessa, magari in modo apparentemente diverso, ma in realtà è sempre la stessa, che si ripresenta.

Ma perché sto parlando di Birdman? Perché è l’inizio del mio racconto su Duane Hanson.
Dunque, stavo tornando da Milano, qualche settimana fa, e in attesa del treno – fuori un diluvio universale – mi infilo dentro la Feltrinelli. La stazione era piena di migranti in un modo imbarazzante, poveri cristi pensavo, a guardarli mentre attendono che succeda qualcosa, qualsiasi cosa che li porti via da lì. Era da poco terminato lo sciopero dei trasporti, e per quanto sia impressionantemente alta la Stazione Centrale mi pareva di soffocare, tanta era la gente che si accalcava tra i binari, di fronte ai negozi, nel sotterraneo di fronte la biglietteria, all’ingresso della metropolitana. Non ho capito se è stata agorafobia, la mia, o semplice paura nel sentirmi appiccicata addosso tutta quell’aria carica di tensione.
La Feltrinelli, quindi. In realtà ero alla ricerca di un altro libro (che ho trovato e divorato in tempo record, “Nel mondo a venire”, di Ben Lerner, ma questa è un’altra storia), quando mi è caduto l’occhio su un volume che aveva due dettagli riconoscibili. Il primo, ancor prima del titolo fu il disegno in copertina, un’illustrazione che sapevo da chi fosse stata eseguita: Shout, al secolo Alessandro Gottardo. Solo qualche mese prima avevo scritto una recensione sulla sua mostra qui a Vicenza, e certamente le illustrazioni per i racconti di Carver erano tra i lavori che mi avevano impressionato di più. Queste figure indolenti, silenziose, e le ambientazioni rese con pochi, sintetici tratti, o campiture di colore piattissimo, lasciavano quel misto di tristezza e incompresione, nello sguardo dello spettatore, che rapiva, inevitabilmente. La tragedia (compiuta o meno che sia) ha un odore irresistibile, un fascino irresistibile.
In secondo luogo il titolo: Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. Touché. Ecco, ora si collegano i puntini: Shout, Birdman e l’odore della disperazione. Lo prendo.

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Raymond Carver. In quarta di copertina trovo la biografia, bizzarra: “figlio di un operaio di segheria e di una cameriera. Nato il, morto il”. Fine.
Com’è possibile che non ci sia scritto dove questo genio abbia imparato a scrivere in un modo così meravigliosamente disperato? Beh, è stata la moglie, a convincerlo a frequentare quel corso di scrittura, di approfondire all’università quella che fino a quel momento era stata più che una passione un’urgenza, un bisogno, una necessità.
Carver lo scavatore. Generazioni di scrittori in erba invidiano il suo stile, riconoscibile, insuperabile, gonfio di imitatori. Non è asciutto, nè secco: è l’apoteosi della sintesi, il suo tratto. Non una parola di più di quelle che servono, per inquadrare una scena, per farci capire chi è il derelitto protagonista del racconto. Eppure descrizioni minute definiscono davanti ai nostri occhi, frase dopo frase, le case in cui queste coppie allo sbando vivono, ti sembra di sentirlo nelle narici l’odore di quel divano ammuffito, dove un giovane uomo sta gettando la sua esistenza dopo essere stato licenziato. Lo senti tintinnare il ghiaccio dentro ai bicchieri che i personaggi riempiono di gin e tonica e se li portano alle labbra ogni mezzo paragrafo. Tutto l’alcol del mondo per tirare avanti certe storie amare, e credo sia stata quella lattina di birra stretta nella mano del giardiniere, per prima, a farmi ricordare di Carver e dei suoi racconti cortissimi, appena oltre l’ingresso della Serpentine Sackler Gallery, a Londra.
Ci finisco dentro di domenica mattina, nella galleria, quasi a ora di pranzo. Hyde Park è uno spettacolo, sotto un sole scintillante di fine luglio che fa brillare lo specchio d’acqua gremito di piccole barchette a remi. I sentieri che costeggiano il lago sono attraversati da un pacifico andirivieni di gente, e le sdraio da mare – manca la scritta BIBIONE sopra le righe verticali! – in quella giornata assolata non cozzano poi tanto con il clima non esattamente estivo del resto del mio soggiorno londinese.

Ci metto un attimo prima di capire quello che sto vedendo, oltrepassata la porta a vetri del palazzetto a un piano. Di fianco alla porta d’ingresso un cowboy è posato alla parete, il cappello calato sugli occhi. Di fronte a me a sinistra un uomo grasso, sulla sessantina, seduto su una tagliaerba spenta, un cappello da baseball gli copre la pelata. Ha lo sguardo perso di fronte a sé, e nella mano stringe una lattina di birra, un po’ deformata dalla stretta vigorosa.
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Sulla destra una signora in là con gli anni indossa una t-shirt rosa a righe che urla anni ottanta, e pantaloncini corti e larghi: è seduta su una seggiola e tiene un piede appoggiato all’altro ginocchio, così da avere l’appoggio per la rivista che sta leggendo. Attorno a lei ci sono pile di vecchi libri e quadri da rigattiere.
Poco più in là sta una donna giovane, dal viso grazioso, vestita con degli abiti decisamente stretti per un corpo così formoso. Tiene il peso tutto su una gamba, e guarda fissa verso l’ingresso della galleria. Ma d’un tratto si allontana da questo trittico perfetto, rompendo l’equilibrio da sacra e muta conversazione espositiva, per indicare il bagno ad una delle visitatrici.
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In mostra tutto il paradosso di Duane Hanson, guardasala paffuta compresa. Un artista che si è applicato fino allo sfinimento per confondere il reale con l’irreale, per mischiare le carte sul tavolo e rimettere una copia della realtà di fronte ai nostri occhi in tutta la sua assoluta inconsistenza. Ancor più dei caduti di guerra o le vittime di stragi dei suoi lavori passati, questa retrospettiva sull'”umanità media”, possiamo chiamarla così, in resina poliestere e fibra di vetro, è incredibilmente scioccante. Ma non sono gli abiti consunti, le rughe della pelle o i capelli veri posticci sopra le teste di queste sculture così credibili, ad essere toccanti: è il loro essere così smaccatamente comuni nei ruoli che ricoprono – il giardiniere, l’imbianchino, il magazziniere, la donna delle pulizie, i manovali -, quasi banali nei loro tratti fisiognomici – assomigliano a qualcuno ma non ritraggono realmente nessuno – che ci lascia perplessi e ammutoliti di fronte a loro. Ed ecco instaurarsi un dialogo assurdo, silenzioso, tra queste figure e noi che vaghiamo come degli spettri per le stanze della galleria, parandoci davanti ad ognuno di loro, cercando un’interazione che ci pare impossibile non avere.

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Forse stiamo cercando noi stessi, fissando i loro persi occhi vitrei. Forse vediamo la nostra stessa disperazione stando faccia a faccia con l’unemployer con la camicia a quadri che tiene tra le mani un cartello che dice “lavoro per cibo”. Sono lo specchio di noi stessi, quei lavoratori pensierosi, i bambini a giocare su un tappeto, uomini e donne seduti a un tavolino, uno di fronte all’altro, a stringere nelle mani una bottiglia di birra piuttosto che un bicchiere di gin.
Eccole qui, le coppie di cui tante volte ho letto nei racconti di Carver. Individui prossimi alla separazione, prossimi al suicidio, prossimi a compiere una follia nella speranza di una vita migliore. Ma che intanto stanno lì, muti come pesci, a fissare il vuoto che li accompagna, oltrepassando qualunque cosa o chiunque stia davanti alle loro piccole, insignificanti, trascurabili esistenze.
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Vicenza val bene una mostra

Il primo gennaio 2013 cominciavo il nuovo anno scrivendo, su commissione, il concept per una mostra che si sarebbe dovuta (o meglio, potuta) fare nel salone al primo piano della Basilica Palladiana. Il 20 gennaio 2013 infatti chiudeva, dopo tre mesi di apertura, la tanto discussa “strategiacommericialeGoldin”, dall’ammiccante titolo “Raffaello verso Picasso”: la mostra avrebbe dovuto riportare in auge Vicenza, che negli ultimi anni si era lasciata sfuggire diverse occasioni per mettersi in piedi e ricavare dalla cultura un discreto ritorno, non solo d’immagine ma anche economico.
Pareva, al termine di questo evento similculturale, si prospettasse per il Salone della Basilica un gap organizzativo che la lasciava scoperta. Le elezioni per il nuovo sindaco sarebbero state ad aprile: qualcuno aveva pensato ad un evento che potesse cavalcare l’onda del successo (almeno di pubblico) della mostra goldiniana e sfruttare a proprio vantaggio la visibilità data dall’essere in uno spazio sì prestigioso e centrale? No. O meglio, qualcuno forse sì, ma pare non sia stato ascoltato. Il progetto fu vagliato da chi di dovere, piacque, e poi più nulla.
Si preferì fare una mostra su cartoline d’epoca, vista da una manciata di persone, e un’altra sul giro d’Italia…

Il titolo della mostra che avevo ideato era “Bentornato a casa”. Emblematico, certamente: la “casa” sarebbe stata la Basilica, vista nuovamente come spazio vissuto dalla città, e il “bentornato” si sarebbe dovuto dare ad un parterre di giovani artisti vicentini (il range medio si aggirava tra i 25 e i 45 anni) i quali, avendo avuto nel loro percorso artistico più successo, riconoscimenti e soddisfazioni professionali ed economiche all’estero, potessero, per una volta, essere “profeti in patria”, e venir visti per quello che erano (anzi sono) ossia ottimi artisti, omaggiati dai propri concittadini e dalla loro stessa città, in un luogo di prestigio com’è, appunto, la Basilica. Quindi, non più, o non solo, capolavori di maestri indiscussi dell’arte mondiale, ma anche opere di pregio di artisti – in vita – ancora, a noi, semisconosciuti.

Ora siamo al 5 di gennaio del 2014. Ad un anno di distanza, come sono andate le cose? Non c’è stato, come l’avevo pensato, nessun “bentornato a casa”; il sindaco è di nuovo Variati, il suo portavoce, Bulgarini D’Elci, è diventato vicesindaco e assessore alla Crescita con delega a Cultura e Turismo e referente per le attività culturali della nostra amata Basilica, e, a parte il “salone proibito”, non esistono spazi per l’arte che non siano gallerie private (qualcuna storica ha chiuso, nel frattempo, come Yvonne Arte Contemporanea, o altre nuove provano ad insediarsi, come Alessandro Ghiotto Galleria d’arte o Galleria Celeste, seppure molto diverse tra loro) o musei. Fine.

Nel corso del 2013, e prima del cambio di organico all’interno del consiglio comunale, erano state raccolte le firme di giovani esponenti del mondo dell’arte e della cultura vicentina che, attraverso una lettera, chiedevano al sindaco e all’assessorato alla cultura il motivo per cui qui a Vicenza, magari sulla falsariga della più meritocratica Schio, non venisse attuato un piano di bandi ai quali chiunque avrebbe potuto concorrere. Presentando progetti artistico/culturali, attraverso i bandi si sarebbe potuto accedere ai fondi (anche se pochi, ma poi che significa pochi?, che esistono) destinati a queste attività. Più che altro premeva segnalare che era ormai palese il coinvolgimento, nel giro ristretto della cultura visuale vicentina, dei soliti pochi volti noti, creando malumori, malcontenti, soprattutto quando il livello qualitativo del prodotto finale andava ad abbassarsi rasentando terra. Soprannominammo il gruppo di firmatari “Bandi, non banditi” (la virgola si può, in questo caso, mettere e togliere a piacere).
Tuttavia la nostra richiesta era anche in merito a spazi idonei ai quali poter accedere (sempre previo bandi) per esporre degnamente l’arte. Vogliamo tornare a parlare di Schio? A disposizione di chi ne fa debita domanda sono disponibili (e ben forniti di tutto il necessario per esporre): Palazzo Fogazzaro, Palazzo Toaldi Capra, il lanificio Conte e l’attiguo – appena riaperto – Shed. Qui mi fermo, già più che sufficiente come termine di paragone. Per una cittadina di neanche 40 mila abitanti, contro gli oltre 115 mila di Vicenza, un ventaglio di possibilità che fa impallidire la Nostra. Vediamo come sta messa Vicenza, invece: l’ex LAMeC, Laboratorio per l’Arte Moderna e Contemporanea, situato al piano terra della Basilica Palladiana, che per anni ha ospitato discrete esposizioni, inagibile prima perchè bisognoso di restauro, poi destinato a diventare “museo del gioiello”, mai attivato, attualmente chiuso; la Casa Cogollo, detta “del Palladio”, troppo onerosa da mantenere non essendo di proprietà del Comune, ma in affitto. Ha ospitato per anni le piccole ma interessanti mostre sul design, che curava egregiamente Stefania Portinari. Ora lo spazio è chiuso e non è, ovviamente, stato rimpiazzato con altro. AB23, la chiesetta di Ambrogio e Bellino, era dedicato all’arte contemporanea. La struttura subì danni a causa di un guasto alla caldaia che, pare, rese inagibile uno spazio da pochi anni recuperato, e non più riaperto. Risultato: nessuno spazio, adatto ad esporre, disponibile. Le tre realtà citate (vedi questo comunicato sul sito del Comune, datato 2009) facevano parte del progetto “Sistemi di Contemporaneo”. Cosa rimane? La Basilica blindata. Ma finalmente, forse, una svolta!

Illustri. “Undici illustratori under 40 che il mondo ci invidia” cita lo slogan sul manifesto. Che sia la volta buona in cui Vicenza (e il Comune) si rende conto che non esiste solo Goldin?
Ale Giorgini, il curatore, ha poco più di trent’anni e “udite udite” è vicentino. Ha deciso di far esporre, oltre ad alcune sue tavole, lavori significativi di altri dieci artisti. La scelta è ricaduta su illustratori giovani, italiani, che avessero, nel corso delle loro – ancor brevi ma scintillanti – carriere in ascesa ottenuto il maggior numero di riconoscimenti in ambito nazionale ed internazionale: vantano tutti di collaborazioni prestigiose nel mondo della grafica, della comunicazione, dell’advertising e dell’editoria; le loro tavole sono state pubblicate in riviste, magazine, fanzine on e off line ma anche in gallerie e musei di tutto il mondo. E, prerogativa per essere scelti tra i nomi di “Illustri”, questi artisti dovevano essere (ancora) residenti in Italia. Niente fuga di cervelli, dunque: si resta qui, perchè grazie al web, questi artisti sono stati in grado di dar vita alle collaborazioni internazionali di cui sopra (il New Yorker Daily Magazine, Rolling Stone, il Washington Post, The Daily Telegraph…) senza doversi

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