Scoprire cosa si cela all’interno di uno studio d’artista non è sempre così semplice. Spesso questi sono luoghi suscettibili del “senso dell’ordine” di chi ci crea all’interno, inavvicinabili dai “non addetti ai lavori”, frequentati dai suoi avventori ad orari improbabili, semisconosciuti…
Olivares cut assieme a The Soul in The Mirror (alter ego della blogger Teresa Francesca Giffone) provano a trasmettere la loro curiosità alla città di Vicenza. Abbiamo rivolto a diversi artisti l’invito a partecipare alla “puntata zero” di OPEN STUDIO, e al pubblico vicentino di avventurarsi tra opere d’arte e artisti disposti a far conoscere il proprio lavoro.
OPEN STUDIO zero.
Dalle ore 16 alle 20 gli spazi sono aperti al pubblico a ingresso libero.
Durante tutto il pomeriggio si susseguiranno alcuni eventi. Questo il programma completo:
SARTORIA LARA COSSÈR – Contrà San Marco 39
Lara Giuriati presenta una capsule collection di abiti studiati su alcune campionature di Mirella Spinella. Enrico Larese Filon curerà la selezione musicale.
Manuel Pablo Pace espone alcuni lavori della sua più recente produzione artistica.
SPAZIO 6 – Contrà San Pietro 6
Lo spazio, sorto nelle stanze dello storico studio fotografico di Attilio Pavin, propone dalle 10.30 alle 16.30 una MARATONA FOTOGRAFICA alla quale ci si può iscrivere in loco.
18.30 Inaugurazione della mostra fotografica GENIUS LOCI di Marco Fogarolo.
DER RUF – Contrà Porta Padova 89
Nello studio dall’atmosfera berlinese Patrizia Peruffo esporrà i suoi taccuini di design, mentre Giusto Pilan presenterà la sua ultima produzione pittorica e di incisioni.
17.30 Mirko Cremasco presenta “VIAGGIO”, performance con voce narrante e istallazione.
INCIPIT – Strada Ponti di Debba 5
Questo splendido open space di retaggio industriale ospita gli studi di Andrea Garzotto, Bruno Lucca, Daniele Monarca e Valentina Rosset.
Per l’occasione il Collettivo Jennifer rosa (esule per un giorno dallo spazio VOLL) presenterà in anteprima la proiezione della videoinstallazione “GEMELLI” (in loop per tutto il corso della giornata).
19.30 “IL CERCHIO E IL LUPO”, spettacolo teatrale di Davide Dal Pra
PER INFO scrivere a petra.cason@gmail.com / tfgiffone84@gmail.com
Da “The Soul in The Mirror”
APPROFONDIMENTI SUGLI SPAZI
APPROFONDIMENTI SUGLI ARTISTI
MAPPA DEGLI SPAZI
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Annamaria, rivolgendosi al suo compagno, ci chiama “le bambine”, anche se io e lei abbiamo poco meno di sei anni di differenza. L’artista passa i mesi estivi in una casa con “cinque finestre ad est”, in contrà Perpruneri (la traslitterazione dal tedesco di Bär Brunnen, Fontana dell’Orso) a Folgaria, il “luogo natio” di Annamaria, per il quale prova un attaccamento commovente), anche se la casa in cui siamo ora non è la stessa nella quale ha passato l’infanzia, quando studiava e lavorava nella bottega di alimentari di famiglia, “Targher”.
Appena le è stato possibile, ai tempi della scuola, Annamaria è “fuggita” da Folgaria (dove ora torna forse alla ricerca di quelle radici che sente nelle gambe) col pretesto di studiare. L’Accademia di Belle Arti Annamaria l’ha frequentata a Verona, da allora cominciando a dedicarsi all’arte in maniera sistematica.
Per alcuni giorni di agosto ha concesso, a me e Cristina, di dormire nella stanza dove solitamente dipinge, facendoci scegliere tra una pila di materassi che sembravano usciti da una soffitta d’altri tempi.
Se dovessi paragonare Annamaria ad un elemento naturale lo farei con un torrente di montagna. In alcuni periodi dell’anno può assumere le sembianze di un rivolo sottile, freddissimo, che scorre lungo le pietre compiendo piccoli salti, bagnando il muschio e le erbe che crescono nei periodi di secca seguendo il corso dell’acqua. Altre volte, sciolte le nevi più in alto, muta d’aspetto e si gonfia d’un’acqua carica di fretta nel giungere a valle, rumorosa, scrosciante, imprevedibile, che travolge senza pietà teneri ramoscelli cresciuti lungo il letto e foglie secche rimaste immobili per mesi.
Ecco, Annamaria è un po’ questo: una donna a tratti silenziosa e cocciuta, sguardo fermo e bacchette alle mani, pronta ad inerpicarsi quasi correndo lungo i versanti delle sue montagne; a tratti invece ferma come una bonaccia, e loquace al punto tale da sconvolgere il più paziente degli ascoltatori.
Si racconta Annamaria, e questa è la cosa che più mi piace di lei (io non sopporto fare molte domande, preferisco pormi in una condizione dedita all’ascolto, piuttosto che sfiancare il mio interlocutore di interrogativi. E’ il tempo buono che si trascorre assieme ad una persona che ce la fa conoscere, non la quantità di risposte che questa riesce a darci). Lo fa a parole, ma soprattutto – per chi sa o vuole leggere tra le righe – attraverso il suo personale modo di fare arte.
Durante il nostro breve soggiorno estivo in Trentino era in corso, nella sala espositiva al piano terra del Municipio di Folgaria, la mostra che raccoglieva le ultime fatiche di Annamaria, e che io e Cristina non mancammo di vedere.
Muuuu. Un titolo onomatopeico per l’esposizione, il muggito di bestie grandi e mansuete, testarde, e talvolta imprevedibili, capaci di mutare improvvisamente stato, da calme a violente in un attimo.
Le elaborazioni di Annamaria, e forse lei stessa, assomigliano al carattere degli animali ritratti. Passa da disegni a carboncino e sanguigna – di piccolo formato, pacati, dai tratti nervosi ma fermi, pochi, essenziali, una sintesi che rassicura – a composizioni che paiono vortici, esplosioni, nelle quali il collage diventa il senso del tutto, il mezzo che coincide con il fine.
La prima volta che vidi le Mucche di Annamaria fu l’estate scorsa nella sua casa di Vicenza. Ci trovammo a cena sul suo terrazzo, con il pretesto di vedere i lavori, e farmi aggiornare dei suoi progetti artistici. Alla parete della sala, che lei ha ribattezzato suo studio levando di torno mobili scuri e ingombranti, era appesa una delle tele che dovevano comparire in mostra: una Mucca felice, che si regge sulle zampe posteriori, le anteriori sollevate in aria: tra i segni dipinti e le figure incollate in un vortice di colori e forme, ogni singola mammella appariva come si stesse guardando all’interno di un frullatore in azione. Nel collage rossetti, occhi dipinti, scatoline per il make up, parti di braccialetti e monili di ogni colore e foggia fluttuano in questi cerchi lanciati in aria e ricomposti lungo il profilo della bestia.
I lavori più recenti, le piccole Mucche realizzate durante il soggiorno montano sono di tutt’altro sapore. Segni piccoli sulla sommità del foglio ad indicare le cime degli alberi che sovrastano pendii rocciosi; a valle quasi nulla, le vacche al pascolo poggiano le loro zampe solide sul foglio bianco. La quiete dopo la tempesta…
Per curare alcune patologie della psiche umana l’uso degli animali ha un valore duplice: da un lato contribuisce a stimolare l’interesse e il rispetto, la cura e l’affetto, verso un’altra creatura, che ha bisogno di essere accudita e nutrita; dall’altro lato porta, attraverso il pretesto dell’accudire, ad avvicinarsi alla parte più selvaggia dell’essere umano, la sua parte più istintuale, quella viscerale, profonda e priva dei legami con la parte razionale, intellettiva.
Annamaria è selvatica, dando al termine la più naturalistica delle accezioni. E dalle sue opere traspare questa sua “selvatichezza”, ricondotta talvolta a una forzata cattività, creando animali dai tratti, o le movenze, antropomorfi. Galli che che vestono abiti di voile e pizzo, capre con agli zoccoli scarpe dal tacco alto, e mucche le cui ‘pudenda’ esposte ai quattro venti sono ri-composte (grazie alla tecnica del collage) da pezzi di cosmesi femminile, intagliati con meticolosa dovizia direttamente dalle pagine patinate delle riviste che tiene sparse per lo studio.
Lei stessa, in un lucidissimo post delle 6 di stamattina, con il sarcasmo che la contraddistingue, ha scritto: “Potrei continuare a fare Mucche tutta la vita. Tutte le volte, senza delusione, è lo svelamento nuovo e inaspettato di un carattere, di una ben definita personalità. Questa strana, ma reale compagnia che mi fanno potrebbe, un giorno, costituire materiale innovativo (o consolidato) per la letteratura psichiatrica.”
Dopo la prima appassionata esperienza espositiva di Magnum a Palazzo Leoni Montanari del settembre 2012, quando fu presentata la mostra intitolata L’Italia e gli italiani”, la sede museale vicentina di Intesa Sanpaolo replica l’ospitalità, aprendo le porte a Magnum Contacts Sheets, mostra curata da Magnum in collaborazione con Forte di Bard. Non è solo un viaggio nella storia della fotografia, è un’indagine del metodo di lavoro dei fotografi stessi e un viaggio nella storia internazionale compiuto in maniera assolutamente trasversale. Magnum è un’agenzia storica, forse la più famosa al mondo, che riunisce, in forma di società cooperativa dal 1947, tra i migliori fotografi al mondo, al fine di tutelare il diritto d’autore e la libertà espressiva e d’informazione di ognuno di loro. La fondarono a Parigi quattro uomini instancabili, pionieri del fotogiornalismo, Henry Cartier-Bresson, Robert Capa, David Seymour (Chim) e George Rodger. Attualmente Magnum ha sede in quattro città – Parigi, Londra, New York e Tokyo – e, dal ’47 ad oggi, ha contato quasi novanta membri. Questi piccoli provini a contatto sono figli delle macchine fotografiche compatte, nate intorno agli anni Trenta del secolo scorso: della stessa dimensione dei negativi, i provini a contatto si ottenevano posando direttamente la pellicola sviluppata su un foglio di carta fotografica, così da avere delle immagini positive senza l’uso dell’ingranditore. In mostra sono molti i materiali d’archivio, e direttamente sui fogli dei provini si leggono le annotazioni e i segni apposti dai fotografi stessi o dagli editor delle redazioni per distinguere i fotogrammi scelti da quelli scartati. Al fianco di foto che sono diventate icone dei nostri tempi, infatti, possiamo leggere, in una modalità assolutamente intima, quasi meditativa, quali sono stati i percorsi, compiuti da parte dei fotografi, nel ricercare lo scatto – quello che esprime, in un solo colpo d’occhio, la sintesi formale e concettuale dell’esperienza che stanno vivendo, che si sta compiendo davanti ai loro occhi – e comprendere come le foto venissero costruite, tagliate, dotate di senso in questa fase intermedia che segue lo scatto e precede la stampa e la sua pubblicazione. Le sezioni espositive sono divise per decadi, e, oltre a far compiere allo spettatore un viaggio nella storia della fotografia, ci permettono anche di entrare a contatto con la storia recente, la cultura e il costume internazionali. La prima sezione riguarda due decenni, dal 1936 al 1949, e raccoglie, tra gli altri, alcuni degli scatti più famosi dei quattro padri fondatori di Magnum: la prima, “Siviglia”, venne scattata da Cartier-Bresson durante un viaggio che lo portò, nel 1933, per tre mesi a viaggiare lungo le città di una Spagna segnata dalla guerra civile in corso con un biglietto del treno di terza classe; Chim immortalò il comizio di un deputato socialista, che arringava la folla in una cittadina nella provincia spagnola dell’Estremadura, non ritraendo l’oratore ma cogliendo l’espressione rapita di una delle donne del popolo, quasi dimentica del bimbo che sta allattando, gli occhi rivolti al pulpito, appena socchiusi per il sole che la investe, sottolineandone i lineamenti stanchi. Rodger fu fra i sei soli corrispondenti che, durante la Seconda Guerra Mondiale, vennero inviati a documentare la Campagna del Deserto occidentale tra Egitto e Libia. Assieme alle forze armate francesi che combattevano l’avanzata delle truppe italiane e tedesche. Le novemila miglia percorse si tramutarono in centinaia di scatti, dei quali solo in parte furono pubblicati dalla rivista Life, che commissionò a Rodger il reportage, mentre la maggior parte delle immagini furono raccolte nel libro Desert Journey, pubblicato nel 1944. Robert Capa rischiò la vita durante il D-Day, per testimoniare lo sbarco in Normandia delle forze alleate. Abbandonata la spiaggia dalla quale stava fotografando salì su una piccola imbarcazione che, appena giunta al largo, venne colpita e affondò. Salvatosi fortunosamente riuscì a mandare agli uffici londinesi di Life i quattro rullini scattati il giorno precedente. Ma per la fretta di asciugare i negativi tre su quattro vennero rovinati, distruggendo drammaticamente gran parte del materiale fotografico. Gli scatti che si salvarono, forse proprio perchè mossi, sfocati, rendono la tensione e la drammaticità di quei momenti. Negli anni ’50 troviamo episodi leggeri come gli scatti di Marc Riboud che, inerpicatosi tra i tralicci della Tour eiffel, scatta dei ritratti all’imbianchino acrobata che ne ritocca il colore; o quelli di Inge Morath che, per la sezione umoristica “Animals” di Life, segue per giorni un serraglio di animali che lavorano nello spettacolo, scattando buffissime foto di loro a spasso per Manhattan. La più famosa ritrae Linda il Lama che si gode il panorama di Times Square sporgendo collo e muso dal finestrino dell’auto che la accompagna. Tuttavia, a fare eco a questi scatti ci sono immagini che riportano alla mente eventi storici di portata mondiale: l’incontro tra Nixon e Kruscev del ’59 nel padiglione delle cucine dell’Esposizione Nazionale Americana a Mosca; l’arrivo di Fidel Castro a L’Avana, nei giorni caldi della rivoluzione; il passaggio del Dalai Lama in India dopo la sua dipartita dal Tibet occupato dai cinesi. Negli anni Sessanta troviamo immortalati uomini politici del calibro di Malcolm X, nel ritratto pieno di fascino fattogli da Eve Arnold nel 1961; il volto serio di Kennedy che appare tra le alte sedute nere della stanza presidenziale; lo sguardo pensoso di Che Guevara, che sembra non fare caso alla presenza di Renè Burri che scattava nella penombra del suo appartamento a L’Avana; Martin Luther King che stringe le mani di una folla appassionata. E ancora, i Beatles in sala di registrazione ai tempi di A Hard Day’s Night; gli scontri di Parigi durante il maggio ’68; l’arrivo dell’esercito russo a Praga che mise fine alla Primavera di liberalizzazione… Il bianco e nero, anziché essere relegato ai primi decenni di sviluppo della fotografia, continua ad essere un linguaggio usato trasversalmente fino ai nostri giorni: nel ritratto realizzato da Raghu Rai a Madre Teresa di Calcutta; nei provini che Susan Meiselas fece alle spogliarelliste incontrate nelle fiere popolari del New England; nello scatto di Peter Marlow che mostra la tempra della Lady di Ferro, Margaret Thatcher…
Dalla fine degli anni Settanta, tuttavia, fa la sua comparsa il colore, assieme alle diapositive che gradualmente vanno a sostituire i provini tradizionali. Kubota, McCurry, Parr, Sanguinetti…nel passaggio dagli anni Ottanta al nuovo millennio l’uso della cromia si fa sempre più accentuato, per diventare preponderante negli scatti dell’ultima decade, 2000-2010. Quest’ultima sezione si apre al digitale, con un esempio di provini digitali ad affiancare lo scatto di Subotzky, “Beaufort West”, ma anche crea un punto di contatto con l’arte contemporanea. Alec Soth (che in “Madre e figlia”, foto tratta dall’ampio progetto “Sleeping by the Mississippi”, usa il banco ottico per scattare) e Jim Goldberg (che nel suo “Proof” raccoglie centinaia di polaroid, a comporre un “album di famiglia” che riunisce esponenti di una “variegata umanità”) fanno coincidere i provini con il prodotto finale del loro lavoro, travalicando l’esigenza di perfezione tecnica a favore di un lavoro più istintivo e concettuale.
A conclusione, ancora un incontro con la storia, la più contemporanea, ma già divenuta “il passato”: gli scatti di Paolo Pellegrin a documentare il funerale di un contadino serbo ucciso nel 2000 in un atto di rivendicazione da parte di Kosovari, tragica testimonianza di una guerra, quella balcanica, mai veramente conclusa, e le inconsuete immagini della caduta delle Torri Gemelle scattate da Thomas Hoepker nel giorno in cui il volto e l’animo dell’America cambiò per sempre: la fotografia non smetterà mai di essere “testimonianza dell’accadere”.
Una mostra certamente complessa, e proprio per questo stimolante. Per chi vuole approfondire le tematiche trattate in mostra, a fianco dell’esposizione, Palazzo Leoni Montanari propone diverse attività collaterali, tra cui le visite guidate gratuite ogni sabato pomeriggio, i laboratori didattici per le scuole, per gli adulti e le famiglie, i workshop di fotografia in esterna e, a breve, un ciclo di film dedicati alla fotografia, nel fine settimana a partire da domenica 16 febbraio. Tutte le informazioni si trovano sul sito di Palazzo Leoni Montanari, o chiamando al n. verde 800578875.
MAGNUM CONTACT SHEETS Gallerie d’Italia, Palazzo Leoni Montanari, Contrà Santa Corona, 25 – Vicenza
Mart – Dom 10.00-18.00 (ultimo ingresso 17.30) fino 11 MAGGIO 2014
Ingresso libero
Olivares cut ha partecipato alla CALL FOR CURATOR indetta da MaRT per la Galleria Civica di Trento con il progetto LE POLVERI SOTTILI.
Questo il concept del progetto presentato. Attualmente in cerca di un sito dove rendere effettiva l’esposizione.
LE POLVERI SOTTILI
Le Polveri Sottili muove da un approccio sociologico al tema del Conflitto: gli artisti sono stati chiamati ad intervenire – secondo modalità site specific, con opere immersive, esperienziali – conciliando il significato della “guerra” come macroconflitto, con una visione più ampia che indaga come anche i microconflitti, tipici della contemporaneità, siano retaggio di un imprinting atavico, impossibile da cancellare. Il dualismo bene/male, vincitori/vinti, vittime/carnefici è un tentativo semplicistico di mettere ordine. Spesso l’impossibilità di inserire protagonisti e avvenimenti nel “cerchio nero” piuttosto che in quello “bianco” ci dimostra tutta la complessità nel rappresentare verosimilmente una situazione dalle infinite sfumature. A partire dal concetto di identità, la mostra vuole proporre un’iconografia del conflitto contemporaneo. “Le Polveri Sottili” hanno un duplice significato: da un lato si riferiscono alla polvere da sparo, materiale esplosivo ma di per sé innocuo (riferimento metonimico alla concretizzazione dell’azione violenta della guerra); dall’altro, si fa riferimento alle polveri inquinanti, che si insinuano, invisibili e indisturbate, all’interno dell’organismo fino ad incancrenirlo e distruggerlo, metafora di conflitti subdoli e ancor più pericolosi degli scontri diretti, palesi. La mostra non vuole, pertanto, essere un “elogio al conflitto”, pur riconoscendo a esso un importante valore nel processo di crescita individuale e conoscitiva. Il
conflitto è una forma d’interazione intensa, che non necessariamente comporta l’uso della violenza. Esso fortifica il Sé attraverso il riconoscimento dell’Altro, promuove l’integrazione interna del gruppo; si mantiene dualistico indipendentemente dal livello entro il quale viene a crearsi. Il conflitto aperto è sempre tra due parti: ecco dunque che il percorso espositivo ha valore catartico. Il dualismo di significanti è espresso dall’uso del nero in contrasto con il bianco. Il nero si limita alle stanze, singole battaglie; il bianco degli spazi di passaggio concede pause, riflessioni.
La partenza dal basso trascina sul fondo le “polveri pesanti” assieme allo spettatore: le opere di questa sezione non lasciano spazio a una tregua; la risalita, con le “polveri leggere”, porta maggiore respiro. La visione di questi nuovi lavori, che scavano nei conflitti interiori ancor più che in quelli interpersonali, attenua la scarnificazione del concetto avvenuta nella prima sezione della mostra. Da Un terribile amore per la guerra di J. Hillman è stata scelta la frase che corre lungo tutta la Galleria, conciliando visione e interpretazione sociologica, affermando, ancora una volta, il concetto di guerra come rappresentativo e inglobante tutti i conflitti ai quali l’Uomo (contemporaneo) è sottoposto. Alla definizione del concept ha collaborato il sociologo Vincenzo Romania.
“…la guerra genera la struttura stessa dell’esistenza e del nostro pensiero su di essa: le nostre idee di universo, di religione, di etica; il tipo di pensiero alla base della logica aristotelica degli opposti, delle antinomie kantiane, della selezione naturale di Darwin, della lotta di classe marxiana e perfino della freudiana rimozione dell’Es da parte dell’Io e del Super-io. Noi pensiamo secondo la categoria della guerra, ci sentiamo in dissidio con noi stessi e senza rendercene conto siamo convinti che la predazione, la difesa del territorio, la conquista e la battaglia interminabile di forze opposte siano le leggi fondamentali dell’esistenza”.
J. Hillman, Un terribile amore per la guerra, Milano, Adelphi, 2005.
Progetto espositivo a cura di Petra Cason
Consulenza al concept Vincenzo Romania, sociologo
Consulenza al progetto espositivo Nicola Cappellari, architetto; Flavio Barban, architetto
Grafica Cristina Maraschin
Artisti
Fabiano De Martin
Samuele Papiro
Vincenzo Romania
Giuseppe Vigolo
Marco Dal Maso / Francesca Sarah Toich
Giacomo Roccon
Franco Guardascione
Andrea Rosset
Nicole Voltan
Enrica Casentini
Arianna Piazza
Federico Lanaro
Dimitri Giannina
(Immagine dall’opera WEAPONS di Giuseppe Vigolo)
Il primo gennaio 2013 cominciavo il nuovo anno scrivendo, su commissione, il concept per una mostra che si sarebbe dovuta (o meglio, potuta) fare nel salone al primo piano della Basilica Palladiana. Il 20 gennaio 2013 infatti chiudeva, dopo tre mesi di apertura, la tanto discussa “strategiacommericialeGoldin”, dall’ammiccante titolo “Raffaello verso Picasso”: la mostra avrebbe dovuto riportare in auge Vicenza, che negli ultimi anni si era lasciata sfuggire diverse occasioni per mettersi in piedi e ricavare dalla cultura un discreto ritorno, non solo d’immagine ma anche economico.
Pareva, al termine di questo evento similculturale, si prospettasse per il Salone della Basilica un gap organizzativo che la lasciava scoperta. Le elezioni per il nuovo sindaco sarebbero state ad aprile: qualcuno aveva pensato ad un evento che potesse cavalcare l’onda del successo (almeno di pubblico) della mostra goldiniana e sfruttare a proprio vantaggio la visibilità data dall’essere in uno spazio sì prestigioso e centrale? No. O meglio, qualcuno forse sì, ma pare non sia stato ascoltato. Il progetto fu vagliato da chi di dovere, piacque, e poi più nulla.
Si preferì fare una mostra su cartoline d’epoca, vista da una manciata di persone, e un’altra sul giro d’Italia…
Il titolo della mostra che avevo ideato era “Bentornato a casa”. Emblematico, certamente: la “casa” sarebbe stata la Basilica, vista nuovamente come spazio vissuto dalla città, e il “bentornato” si sarebbe dovuto dare ad un parterre di giovani artisti vicentini (il range medio si aggirava tra i 25 e i 45 anni) i quali, avendo avuto nel loro percorso artistico più successo, riconoscimenti e soddisfazioni professionali ed economiche all’estero, potessero, per una volta, essere “profeti in patria”, e venir visti per quello che erano (anzi sono) ossia ottimi artisti, omaggiati dai propri concittadini e dalla loro stessa città, in un luogo di prestigio com’è, appunto, la Basilica. Quindi, non più, o non solo, capolavori di maestri indiscussi dell’arte mondiale, ma anche opere di pregio di artisti – in vita – ancora, a noi, semisconosciuti.
Ora siamo al 5 di gennaio del 2014. Ad un anno di distanza, come sono andate le cose? Non c’è stato, come l’avevo pensato, nessun “bentornato a casa”; il sindaco è di nuovo Variati, il suo portavoce, Bulgarini D’Elci, è diventato vicesindaco e assessore alla Crescita con delega a Cultura e Turismo e referente per le attività culturali della nostra amata Basilica, e, a parte il “salone proibito”, non esistono spazi per l’arte che non siano gallerie private (qualcuna storica ha chiuso, nel frattempo, come Yvonne Arte Contemporanea, o altre nuove provano ad insediarsi, come Alessandro Ghiotto Galleria d’arte o Galleria Celeste, seppure molto diverse tra loro) o musei. Fine.
Nel corso del 2013, e prima del cambio di organico all’interno del consiglio comunale, erano state raccolte le firme di giovani esponenti del mondo dell’arte e della cultura vicentina che, attraverso una lettera, chiedevano al sindaco e all’assessorato alla cultura il motivo per cui qui a Vicenza, magari sulla falsariga della più meritocratica Schio, non venisse attuato un piano di bandi ai quali chiunque avrebbe potuto concorrere. Presentando progetti artistico/culturali, attraverso i bandi si sarebbe potuto accedere ai fondi (anche se pochi, ma poi che significa pochi?, che esistono) destinati a queste attività. Più che altro premeva segnalare che era ormai palese il coinvolgimento, nel giro ristretto della cultura visuale vicentina, dei soliti pochi volti noti, creando malumori, malcontenti, soprattutto quando il livello qualitativo del prodotto finale andava ad abbassarsi rasentando terra. Soprannominammo il gruppo di firmatari “Bandi, non banditi” (la virgola si può, in questo caso, mettere e togliere a piacere).
Tuttavia la nostra richiesta era anche in merito a spazi idonei ai quali poter accedere (sempre previo bandi) per esporre degnamente l’arte. Vogliamo tornare a parlare di Schio? A disposizione di chi ne fa debita domanda sono disponibili (e ben forniti di tutto il necessario per esporre): Palazzo Fogazzaro, Palazzo Toaldi Capra, il lanificio Conte e l’attiguo – appena riaperto – Shed. Qui mi fermo, già più che sufficiente come termine di paragone. Per una cittadina di neanche 40 mila abitanti, contro gli oltre 115 mila di Vicenza, un ventaglio di possibilità che fa impallidire la Nostra. Vediamo come sta messa Vicenza, invece: l’ex LAMeC, Laboratorio per l’Arte Moderna e Contemporanea, situato al piano terra della Basilica Palladiana, che per anni ha ospitato discrete esposizioni, inagibile prima perchè bisognoso di restauro, poi destinato a diventare “museo del gioiello”, mai attivato, attualmente chiuso; la Casa Cogollo, detta “del Palladio”, troppo onerosa da mantenere non essendo di proprietà del Comune, ma in affitto. Ha ospitato per anni le piccole ma interessanti mostre sul design, che curava egregiamente Stefania Portinari. Ora lo spazio è chiuso e non è, ovviamente, stato rimpiazzato con altro. AB23, la chiesetta di Ambrogio e Bellino, era dedicato all’arte contemporanea. La struttura subì danni a causa di un guasto alla caldaia che, pare, rese inagibile uno spazio da pochi anni recuperato, e non più riaperto. Risultato: nessuno spazio, adatto ad esporre, disponibile. Le tre realtà citate (vedi questo comunicato sul sito del Comune, datato 2009) facevano parte del progetto “Sistemi di Contemporaneo”. Cosa rimane? La Basilica blindata. Ma finalmente, forse, una svolta!
Illustri. “Undici illustratori under 40 che il mondo ci invidia” cita lo slogan sul manifesto. Che sia la volta buona in cui Vicenza (e il Comune) si rende conto che non esiste solo Goldin?
Ale Giorgini, il curatore, ha poco più di trent’anni e “udite udite” è vicentino. Ha deciso di far esporre, oltre ad alcune sue tavole, lavori significativi di altri dieci artisti. La scelta è ricaduta su illustratori giovani, italiani, che avessero, nel corso delle loro – ancor brevi ma scintillanti – carriere in ascesa ottenuto il maggior numero di riconoscimenti in ambito nazionale ed internazionale: vantano tutti di collaborazioni prestigiose nel mondo della grafica, della comunicazione, dell’advertising e dell’editoria; le loro tavole sono state pubblicate in riviste, magazine, fanzine on e off line ma anche in gallerie e musei di tutto il mondo. E, prerogativa per essere scelti tra i nomi di “Illustri”, questi artisti dovevano essere (ancora) residenti in Italia. Niente fuga di cervelli, dunque: si resta qui, perchè grazie al web, questi artisti sono stati in grado di dar vita alle collaborazioni internazionali di cui sopra (il New Yorker Daily Magazine, Rolling Stone, il Washington Post, The Daily Telegraph…) senza doversi