La mia TOP FIVE di Magnum Contact Sheets

Manca poco meno di una settimana alla chiusura di una delle più belle mostre esposte a Vicenza negli ultimi mesi e pertanto vi dedico la mia Top Five, le mie cinque fotografie preferite tra le molte esposte. Forse non saranno le più belle, forse ne avrei potute scegliere altre. Ma si sà, le Top Five sono così: ne devi scegliere solo cinque. Come faceva il protagonista di Alta Fedeltà di Nick Hornby. Ve lo ricordate?
E stavolta ho scelto queste.

Magnum Contact Sheets. In mostra, per riassumere brevemente, foto più o meno famose con a fianco i corrispondenti (semisconosciuti ai più) provini a contatto, foto 1:1 che mostrano un primo sviluppo dei negativi compiuti dal fotografo, dai quali si fa la selezione delle immagini da tenere: per un servizio, una pubblicazione, una mostra… I fotografi scelti sono pezzi da novanta, tra le fila dell’agenzia Magnum, una delle più importanti al mondo, nata nel 1947 in forma di cooperativa spontanea per tutelare i diritti e il lavoro dei fotografi stessi. Scatti dal 1936 al 2010, un excursus storico documentaristico di respiro internazionale.

E ora, via con la Top Five.

Quinto posto: DALÍ ATOMICO di Philippe Halsman
Fotografo di origine lettone, prima di finire in Francia a lavorare per Vogue Halsman aveva studiato a Dresda ingegneria elettrica e si era fatto qualche buon anno di carcere con accusa di omicidio (pare infondata) per la morte del padre. Dagli anni Cinquanta cominciò a produrre ritratti inconsueti, di persone famose, alle quali chiedeva di saltare mentre scattava. La serie di immagini che ne uscì, e si compose in qualche decennio, era intitolata Jump – e Jumpology la “teoria” che in seguito venne costruita sul suo lavoro: disinibire le pose che la vita ci insegna a mantenere per non lasciar trasparire dall’espressione del viso le emozioni. Un salto non ti permette di mentire: e così gli scatti riuscivano a mettere a nudo le ambizioni, le timidezze, forse il vero carattere dei soggetti ritratti.
Ma il salto di Dalì, il pazzo surrealista, uno che era abituato a fare ben altri salti (come ad esempio lanciarsi dalle scale o dalle finestre “per vedere l’effetto che fa”), nello scatto di Halsman mostra qualcosa di meno scontato: più che la Jumpology del fotografo mette in scena (in un altrettanto surreale teatrino fatto di 6 ore di tentativi, 28 lanci di gatti e altrettante secchiate d’acqua, sangue e sudore di quattro assistenti, di Yvonne la moglie di Halsman, del fotografo e di Dalì stesso) la direzione verso la quale la pittura stessa di Dalì si stava dirigendo. La doppia esplosione atomica del 1945 aveva colpito Dalì al punto tale da fargli virare drasticamente il suo modo di fare arte, avviando una reinterpretazione dei legami tra le cose del mondo secondo i principi che uniscono (o scindono) tra loro gli atomi. Infatti, il dipinto che a malapena si vede a destra della foto è il “manifesto pittorico” della poetica daliniana che si può sintetizzare in “mistica atomica”, Leda Atomica: un approccio fisico e scientifico allo scibile, filtrato da un’introspezione in bilico tra il religioso e il superstizioso, con un recupero palese dei dettami rinascimentali nelle forme e nelle strutture compositive.
Ecco, ora vedeteci molto più di un’incredibile acrobazia. (P.s. è pellicola. Non esisteva photoshop. Scordatevi la postproduzione.).

Leda_atomica

Quarto posto: INVASIONE DI PRAGA di Josef Koudelka
Quel polso che si sporge, in primo piano, sulla strada di una Praga deserta, non so dirlo se fosse quello di Josef Koudelka, l’ingegnere aeronautico che decise di rendere testimonianza a ciò che stava avvenendo nella sua terra attraverso un mastodontico reportage dell’invasione di Praga. L’orologio riporta l’attenzione al tempo, congelato per sempre nell’immagine fotografica, di un giorno da dimenticare nell’attesa che i carriarmati russi entrassero a distruggere il vento fresco di liberalizzazione che la Primavera aveva portato nella capitale cecoslovacca, in contrasto con le restrizioni dettate dall’impero sovietico.
Koudelka in pochi giorni, nell’agosto del ’68, scattò all’impazzata un numero impressionante di fotografie. Usò pellicola da cinema, anzichè quella fotografica, perchè costava di meno. A Koudelka, che al tempo non era un fotografo di professione ma divenne un esempio per i fotoreporter venuti dopo di lui, questo gigantesco lavoro di documentazione costò l’esilio forzato dalla sua terra per oltre vent’anni, l’abbandono dei propri genitori che lo videro una sola volta dopo la sua dipartita, e una fama che gli venne giustamente attribuita, seppure a posteriori, da parte di Magnum. L’agenzia si mise sulle sue tracce finchè riuscì a scovare l’identità del “fotografo praghese”, che così aveva firmato i numerosi scatti giunti fortunosamente sulle scrivanie dell’allora presidente Elliot Erwitt. Dopo Quarant’anni venne pubblicato un libro che raccoglie tutti gli scatti più importanti realizzati in quell’occasione, che commuove Koudelka ancora oggi, mentre lo sfoglia.

koudelka_1

Terzo posto: 11 SETTEMBRE 2001 di Thomas Hoepker
Quando il primo aereo andò ad infilarsi dritto come un fuso dentro ad una delle due Torri Gemelle nel cuore di una radiosa New York, Hoepker si trovava nel versante cittadino opposto al Word Trade Center. Lo chiamarono da Magnum: doveva muoversi, per andare a raccogliere testimonianza di ciò che stava avvenendo. Hoepker si precipitò per le strade di Manhattan in auto, tentando di avvicinarsi – invano – il più possibile alla zona che in seguito fu ribattezzata “Ground Zero”, ormai presidiata dalla polizia. Costeggiando l’East River, continuando a tenere d’occhio il fumo all’orizzonte che si alzava alto sopra le sagome dei grattaceli, si fermò a una piazzola di sosta, a scattare, dal finestrino dell’auto, il cielo azzurro di quella luminosa mattina di settembre coperto da una spaventosa nube grigia.
Il giorno dopo, negli studi di Magnum, le diapositive di Hoepker parevano ben poca cosa di fronte a quelle dei colleghi che si trovavano al momento della tragedia proprio sotto le Torri. Ma a distanza di alcuni anni i suoi scatti vennero ripresi e rivalutati, e questo sotto, in particolare, divenne una delle foto più conosciute e discusse di Hoepker. Perchè qui le Torri sono “relegate” al background, ma in primo piano non ci sono solo dei giovani seduti a chiacchierare. C’è l’emblema di un’America bella e invincibile, che niente doveva temere, colta nell’attimo prima di prendere consapevolezza dell’accaduto, quando capisce di trovarsi di fronte alla fine di un’epoca che nessun capitalismo potrà più riconsegnarle.

11sept-hoepker

Secondo posto: CARNIVAL STRIPPER di Susan Meiselas
Susan trascorse le sue estati tra il ’72 e il ’75 girando mezza America con l’idea di scattare fotografie alle ragazze che, per sbarcare il lunario, si spogliavano negli spettacolini che popolavano le piccole città del New England, Pennsylvania, Sud Carolina. Meiselas non fotografò solo le “ballerine”, ma anche i gestori di questi improbabili carrozzoni, i clienti paganti e i fidanzati delle ragazze, facendone uscire un quadro decadente, un po’ kitsch ai nostri occhi, ma anche con un suo fascino, allegro a tratti.
La fotografa sviluppava i negativi ogni settimana, ma accadeva a volte che, quando tornava a bussare alle porte dei camerini della carovana per regalare alle ragazze alcuni loro ritratti, non le aprisse nessuno, perchè da un giorno all’altro queste avevano la buona abitudine di scappare con qualche “fidanzato”, chissà forse inseguendo il sogno americano, forse solo un futuro diverso.
La foto che preferisco è questa sotto. Non è stata scattata durante uno degli spettacoli, ma nell’intimità del camerino, quando le ragazze si preparavano allo specchio, o si riposavano tra uno spogliarello e l’altro fumando e chiacchierando, dimenticandosi che Susan era lì con loro e scattava con la sua Leica portatile, ritraendo i loro corpi svestiti quanto le loro espressioni stanche.

meiselas

Primo posto: SABINE di Jacob Aue Sobol
La ragazzina paffuta delle foto è Sabine, la fidanzata di Sobol. Di origini danesi, Sobol andò in Groelandia nel 1999, per fotografare il villaggio sperduto di Tiniteqilaaq. Doveva rimanerci solo per qualche settimana, invece durante quel soggiorno conobbe Sabine, e si innamorò di lei. Tornò in Groenlandia alcuni mesi più tardi, e ci restò per i due anni successivi, diventando cacciatore e pescatore. In quel periodo la macchina fotografica la usò soprattutto per ritrarre la sua amata, che fa le facce strane di fronte all’obiettivo, che si passa sul corpo nudo una pezzuola di pelle di foca, che accende delle candele sopra il davanzale della finestra per sciogliere il ghiaccio all’interno dei vetri. Mentre disegna un cuore con le due mani davanti al suo volto.
Mi provoca una fitta tutte le volte che la guardo. I due si lasciarono, alla fine. E le foto scattate nella scarna camera da letto sepolta tra i ghiacci artici, sui materassi di gommapiuma a fianco dei fucili per ammazzare le foche, odorosi del merluzzo bollito che la madre di Sabine preparava ai due per colazione, divennero la “memoria del cuore”, come disse Sobol in un’intervista fattagli ad Arles alcuni anni più tardi, durante il Festival della Fotografia.
Un libro pubblicato nel 2004, e intitolato semplicemente “Sabine”, racchiude la loro storia d’amore in bianco e nero, adagiata nel racconto più ampio della complessa e semisconosciuta cultura groenlandese.

Sab-01
Ecco.
MAGNUM CONTACT SHEETS. Gallerie di palazzo Leoni Montanari. Contrà Santa Corona 25, Vicenza.
La mostra è aperta fino a domenica 11 maggio, dalle 10 alle 18.
Non capitate a Palazzo Leoni Montanari dopo le 17.30 però. Perchè non vi faranno entrare neanche se canterete in turco.

 

 

 

 

 

Facebook Twitter Pinterest

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *