IL RISCATTO DI DORA

L’amore di una vita se ne va di casa e io compro due pesci rossi. Dora e Pablo. C’è da stupirsi di come due esserini guizzanti, dentro una bolla di vetro piena d’acqua quasi sempre sporca, siano in grado di tenere compagnia. E di non fare domande indiscrete.
Misi nome ai piccoletti come quelli di uno dei più grandi geni dell’arte del XX secolo, Pablo Picasso, e come l’unica donna forse degna di essere ricordata (o di cui io voglio ricordare) tra le numerose che affiancarono l’incommensurabile artista nella sua lunga vita: Dora Maar. Ai tempi del liceo avevo studiato a fondo la storia di Guernica (il dipinto che Picasso realizzò nel 1937 per commemorare il bombardamento della cittadina basca da parte dell’aviazione nazi-fascista, facendo strage di civili) e in quell’occasione avevo scoperto chi fosse, in realtà, Dora. Lei gli era accanto in quella fase di ritorno alla pittura (dopo due anni di vuoto creativo) e testimoniò tutte le fasi di realizzazione del dipinto attraverso uno splendido ed esaustivo reportage fotografico.
Dora non fu né moglie di Picasso (a differenza di Olga, la ballerina russa dell’entourage di Diaghilev) né madre di alcuno dei suoi figli. Non poteva averne. Forse non fu nemmeno una delle sue più appassionate conquiste amorose, da consumare tra le lenzuola, ma fu certamente una donna che seppe dargli del filo da torcere, intellettualmente. La sua, forse unica, compagna, nel senso più alto (e paritario) del termine.
Quando si incontrarono, a Parigi, al locale chiamato Deux-Magots – il ritrovo preferito dai surrealisti – Picasso aveva 53 anni e Dora 28. A presentarli fu l’amico comune, il poeta Paul Éluard: la sera in cui si conobbero Pablo rimase affascinato dalla risolutezza con la quale Dora stava compiendo un gioco macabro. “Sfilatisi i guanti – neri, con un delicato ricamo di rose – aveva preso un coltello affilato e, posando sul tavolo l’esile mano affusolata dalle unghie rosso rubino, aveva cominciato a colpire, via via più rapidamente, il legno tra un dito e l’altro. A un certo punto, per un movimento sbagliato s’era ferita, ma aveva ugualmente continuato il gioco, mentre la mano si copriva di sangue”.*

Dora Maar, al secolo Henriette Theodora Marković, di origine franco croata, con quella chioma folta di capelli neri, il mento appena sporgente in avanti e uno sguardo fiero, severo, lei così indipendente e libertina, non seppe (o non volle) resistere alle malie del grande Picasso. Ma stare a fianco di uno degli uomini più affascinanti e smaccatamente donnaioli dell’Europa del secolo scorso non fu un’impresa facile, e Dora ne subì, suo malgrado, le conseguenze.
Ma procediamo con ordine.

In una Venezia assolata di fine maggio mi chiudo per alcune ore nel buio della sala al primo piano di Palazzo Fortuny. Le finestre sono coperte da pesanti tendaggi, così come tutte le pareti, e il soffitto. Broccati, sete, rasi, dalle pieghe dei quali scendono dall’alto grossi lampadari marocchini in pelle di cammello, che illuminano di una luce ocra il grande salone rettangolare. Tra i vasi in vetro Venini, esposti a metà tra una cristalleria muranese e la vetrinetta del salotto buono delle case altoborghesi, si alternano i numerosi dipinti a olio, quasi tutti a ritrarre donne semisvestite o completamente nude in pose languide e vagamente ammiccanti, come la ritrattistica di fine ottocento consentiva. Sono opere autografe (dipinti ad olio) dello stesso istrionico ed eccentrico padrone di casa, Mariano Fortuny. In questa casa-museo, cornice piena di fascino di per sè, Victoria Cumbalia ha curato l’esposizione Dora Maar. Nonostante Picasso. Alcune decine di scatti in bianco e nero di piccolo formato, sufficienti a consentire una visione intima di chi lei fosse, ripercorrono le fasi salienti della vita e della carriera della fotografa.
Una prima serie di fotografie ritraggono Dora per mano di fotografi più o meno noti. Fin da adolescente, avvolta in un cappotto chiaro chiuso fin sotto il mento, tiene la stessa posa sicura, la testa di tre quarti e rivolta leggermente verso l’alto, sprezzante, sicura di sé. In uno scatto del 1946 Izis (Israel Bidermanas) la immortala vestita in abiti maschili mentre fuma, il lungo bocchino in metallo appoggiato tra le labbra serrate, non guarda dentro l’obiettivo, ma altrove, seguendo il flusso dei pensieri.

fuma
Man Ray fece a Dora dei ritratti che rielaborava attraverso il processo chiamato di “solarizzazione”, con esposizione esasperata alla luce, in fase di sviluppo, dei negativi. In uno di questi, datato 1936, il viso e le mani di Dora sono di un bianco abbacinante, forzando il contrasto con le zone d’ombra, delle pieghe del vestito e della pelle.

Man Ray, Dora Maar, solarizzazione

Prima di farsi stravolgere la vita da Picasso, Dora era entrata a far parte del circolo dei Surrelisti con alcuni dei quali aveva instaurato un legame che talvolta andava al di là del solo rapporto artistico…Aveva vissuto a lungo a Buenos Aires, parlava correttamente spagnolo e come gli intellettuali dell’epoca era agitata da un’inquietudine profonda.
Nel 1934 strinse amicizia con Andrè Breton, il teorico del movimento surrealista, e fu tra gli artisti firmatari, nel 1935, del pamphlet Du temps que les Surréalistes avaient raison, partecipando all’Esposizione Internazionale del Surrealismo a Santa Cruz de Tenerife con l’opera Le simulateur: Sulla volta a botte capovolta di un corridoio, che ricorda tanto le architetture impossibili di Escher, si inerpica un omino inarcato all’indietro, che sembra si stia spezzando la schiena.

simulateur
I lavori di Dora di questo periodo sono per la maggior parte fotomontaggi, interventi su fotografie con inserti da altre foto, sovrastampe o collage, piuttosto grossolani a dire il vero. Non credo fosse la perfezione quello che si andava cercando, attraverso la giustapposizione di figurette ritagliate, quanto la volontà di creare una realtà impossibile, dando vita a scene immaginifiche, improbabili, tra l’ironico e l’enigmatico.
Originali anche le sovrastampe realizzate in ambito pubblicitario: emblematica l’immagine realizzata per la promozione della lozione per capelli Petrole Hahn, del 1935, nella quale Dora fa solcare un mare di capelli ondulati a un minuscolo veliero.
Un’intera stanza raccoglie le fotografie “di strada”. Parigi, non per nulla, è considerata da sempre il luogo di nascita della “street photography”, e Dora, nel suo peregrinare per gli arrondissement della capitale francese, coglie col suo obbiettivo vagabondi che dormono sulle lamiere negli angoli più abbietti, pescivendoli fuori dalle botteghe, mocciosi aggrappati alle grate delle finestre da cui guardano il mondo, bambole di pezza inchiodate a staccionate di legno. L’occhio disincantato di Dora cede in parte alla vena romantica, melanconica (a volte al limite dello stucchevole) mettendo in risalto un’umanità variegata e suscettibile di attenzioni.

MOCCIOSI

La stanza a fianco invece mi ha riportato alla mente Madrid, l’enorme salone del Museo Reina Sofía dove, proprio accanto a Guernica sono esposte 28 fotografie (qui una parte) che compongono il reportage che Dora fece per documentare l’avanzamento dei lavori sulla tela. Dall’11 maggio al 4 giugno del 1937 Dora Maar frequentò lo studio di Rue des Grands-Augustins testimoniando con i suoi scatti l’intero processo creativo. A Picasso piacque l’idea di fermare, attraverso la camera, non tanto gli stati della pittura, quanto la sua metamorfosi, nella foga creativa che l’aveva riportato prepotentemente alla pittura. I quarantatrè aerei tedeschi che in poche ore avevano fatto 1600 vittime in un paese di 7 mila anime avevano scosso Picasso come un terremoto fa con le fondamenta di un palazzo. Il dipinto non è solo il caposaldo dell’estrema fase cubista, ma anche un manifesto politico, attraverso il quale Picasso smentisce le accuse di sostegno ai nazionalisti, schierandosi nettamente dalla parte della causa repubblicana.
Dora non scattò in condizioni ideali: erano scomode la dimensione della tela (sette metri e mezzo per tre) e la scarsa luminosità dello studio. E per ovviare a questi problemi usò diversi metodi tra cui il ritocco fotografico, l’internegativo e la copia di stampe. Il risultato finale è splendido, in ogni caso. Permette di leggere come in un racconto l’evoluzione del più famoso capolavoro di Picasso, che pare crearsi davanti ai nostri occhi, e di cui lei è in parte artefice, avendo spronato Pablo all’impegno politico, aiutandolo a mettere a fuoco le tragiche vicende spagnole, e avendo discusso con lui la simbologia di ogni singolo aspetto fino a giungere alla sintesi estrema. guer1

Tra i tendaggi di Palazzo Fortuny, accanto alle foto scattate da Dora, o che la immortalano, c’è anche un dipinto a olio, un ritratto fattole da Picasso nel 1939. Dora, in questa tela, non è ancora la stravolta “Donna che piange”, con il viso infranto come un vetro, le dita accartocciate a stringere il fazzoletto che raccoglierà le lacrime versate nei ritratti che Picasso cominciò a farle non appena cominciò a stancarsi di lei. La consuetudine di Picasso di passare da una donna all’altra, di saltare da una relazione all’altra senza mai chiudere nulla veramente con il suo passato, non risparmiò Dora. Per lei Picasso aveva messo da parte la “colomba bianca”, Marie-Thérese, quasi contemporaneamente alla nascita della piccola Maria. Certa della sua superiorità intellettuale su Marie-Thérese, all’inizio Dora non si curò del legame che ancora c’era tra i due (la rassicurava Picasso) ma sbagliava.
Picasso ammirava il coraggio di Dora, la sua intelligenza, la sua indipendenza. Ma non mancò di distruggere le doti che tanto gliel’avevano fatta apprezzare. La sfida, stavolta, era più stimolante che in passato, perchè “ora non si trattava di sprecar tempo ed energie con un topolino, ma di domare una leonessa”.*

dora pablo
La passione per la fotografa non durò che brevi attimi: uno scatto in mostra riassume la consapevolezza, di Dora, dell’azione distruttiva e misogina di Picasso. Man Ray ritrasse i due, assieme ad altri amici, sui gradini di un parco nel sud della Francia. Dora, che siete a fianco di Pablo, sembra infischiarsene dell’obbiettivo: con i gomiti appoggiati alle ginocchia le mani le incorniciano il volto. La curva delle labbra – con gli angoli tirati verso il basso – assieme ad uno sguardo fermo ma sconsolato, mostrano tutta la sua desolante accettazione. Dora non aveva la priorità, per Pablo. Se non erano le cameriere era Nusch Éluard, la moglie di Paul, a farle da amante. In un gioco di scambi senza fine che portò Dora al logoramento. E Marie-Thérese rimaneva, nonostante tutto, l’indiscussa compagna di Pablo.

dora triste
“Non ero innamorato di Dora Maar, mi piaceva come potrebbe piacermi un uomo e le dicevo sempre ‘non sono attratto da te, non ti amo’. Allora seguivano pianti e scene da non credersi”. Disse Picasso del rapporto tra lui e Dora. Inutile a dirsi che anche lei fu lasciata senza mai essere lasciata, da Picasso, che la sostituì con la nuova musa, Françoise Gilot, conosciuta nel maggio del 1943. L’indipendenza e l’autonomia che Dora possedeva quando i due si erano conosciuti era stata totalmente annientata da Picasso: lei aveva subordinato totalmente la sua esistenza a lui, precludendosi ogni via d’uscita. Non fu in grado di reagire, e cadde in uno stato confusionale, peggiorando nel giro di poco tempo. All’ennesimo gesto di follia fu spedita da Picasso stesso dallo psichiatra Jacques Lacan, che la tenne in clinica per tre mesi, tentando di “guarirla” con l’elettroshock e numerose sedute psicanalitiche.
Éluard si infuriò con Pablo, rimproverandolo di aver trasformato, in dieci anni di relazione con Dora, la donna bella e orgogliosa che i surrealisti ammiravano per la sua acuta intelligenza, nella sua “pezza da piedi”. Ma Picasso, nemmeno sta volta, si curò del misero destino che aveva provocato alla donna che lo amava.
Dora, dopo la psicoterapia, cercò conforto nella religione, in un travaglio che non la abbandonò mai. “Dopo Picasso, solo Dio”, scrisse.

Ma stavolta cambiamo il finale. Perchè se nessuno è riuscito a cambiare le sorti di Dora Maar, stritolata tra le mani dell’artista minotauro, io almeno posso dare un “happy ending” alla vicenda che si compie nel mio acquario. Quando la mia Dora si ritrovò sola (Pablo non la lasciò, semplicemente un mattino decise di farsi trovare boccheggiante a pelo d’acqua) perse la voglia di vivere. Smise di girare intorno alla boccia e rimase impressionantemente ferma a sfiorare il fondo della vasca con la sua piccola pancia rossa. Mi si stringeva il cuore nel vederla così triste e sola. Così io, “deus ex machina” di questa storia nella storia, anziché chiamare il Dottor Lacan, ho fatto calare dall’alto, dentro la boccia, Felipe. Un brillante pesce rosso dorato, comune ad ogni altro pesce rosso e che non ha niente, ma stavolta davvero niente, a che fare con l’arte. E vissero tutti felici e contenti.

dora felipe

La mostra è aperta fino 14 luglio al Museo Fortuny di Venezia

*A. Stassinopoulos Huffington, Picasso. Creatore e distruttore, Rizzoli.

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