Dolomiti Contemporanee 2014. Una doppia chiamata alle armi

In quale modo ci si può svincolare da una visione preconcetta e talmente radicata da sembrare l’unica possibile? Solamente cambiando prospettiva, allargando lo sguardo. Portando la visione su un livello differente rispetto al punto di partenza, che scardini l’attaccamento al passato e permetta di “volgersi responsabilmente al futuro”.*

Dolomiti Contemporanee, (di cui ho scritto in passato qui) apre, con la conferenza stampa di ieri, una nuova stagione di cantiere culturale, e tenta, stavolta, la difficile impresa di distruggere, attraverso l’arte, lo stereotipo che attanaglia da decenni la valle del Vajont (all’interno della quale DC ha deciso di stanziare il suo headquarter) quale “luogo deputato alla morte”. Per farlo indìce due “chiamate alle armi”. Two calls for Vajont. Questo il sito dedicato, da ieri on line.
Il progetto Two calls for Vajont si sviluppa attraverso due differenti strade, ma che viaggiano in parallelo. Entrambe infatti si rivolgono agli artisti su scala internazionale (partenariati attivati, per ora, con Francia, Germania e Inghilterra, che faranno da cassa di risonanza al progetto) e entrambe puntano a raccogliere “idee” innovative (due delle quali vedranno la realizzazione, due invece riceveranno un riconoscimento per il loro valore “concettuale”) che verranno valutate da una giuria di rilievo, composta da curatori, artisti e studiosi di fama internazionale: Marc Augé, Pierluigi Basso Fossali, Maria Centonze, Cristiana Collu, Gianluca D’Incà Levis, Alfredo Jaar, Marcella Morandini, Franziska Nori, Fabrizio Panozzo, Angela Vettese.

A call for a Line interessa direttamente la diga, grande lapide che incombe sulla valle a cavallo tra le due province di Pordenone e Belluno, e sulla visione ristretta di chi non riesce a leggere al di là della storia. L’idea è quella di realizzare un’opera che, se da un lato andrà a segnare il livello nell’invaso che l’acqua raggiunse la notte della nota “tragedia”, il 9 ottobre 1963, dall’altro contribuirà a modificarne l’iconografia e pertanto portare la riflessione verso il distaccamento netto con il passato, pur tuttavia nel rispetto della storia che il luogo porta con sè.

A call for a Wall, invece, interessa la facciata del “campo base” di Dolomiti Contemporanee: il Nuovo Spazio di Casso (risultato della riabilitazione dell’edificio che ospitava la scuola elementare di Casso). Emblema della distruzione ma anche della resistenza (all’onda mortale, alla memoria imperitura), lo spazio ospita al suo interno le mostre temporanee che si susseguono durante tutta la stagione estiva. La sua facciata suggestiva, (profondamente segnata dall’onda d’acqua che si apprestava a scavalcare la diga) sarà il luogo sul quale andrà ad insediarsi l’opera vincitrice, anche in questo caso con una tensione verso l’innovazione, in contrasto con una visione stantia e passatista del luogo.

Nel programma di networking che DC ha attivato sul territorio fin dalla sua nascita, la presenza degli sponsor è non solo d’aiuto ma, in questo caso, funzionale alla realizzazione dell’opera stessa. Neonlauro fornirà infatti la tecnologia luminosa della quale dovrà comporsi (come indicato nella call) l’opera. Enel è invece mainsponsor per quanto riguarda A call for a line.
Deadline della call sarà il 30 ottobre prossimo.

 * dal comunicato stampa di Dolomiti Contemporanee / Two Calls for Vajont.

Immagine: Nuovo Spazio di Casso (photo courtesy of Dolomiti Contemporanee / Giacomo De Donà)

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IL RISCATTO DI DORA

L’amore di una vita se ne va di casa e io compro due pesci rossi. Dora e Pablo. C’è da stupirsi di come due esserini guizzanti, dentro una bolla di vetro piena d’acqua quasi sempre sporca, siano in grado di tenere compagnia. E di non fare domande indiscrete.
Misi nome ai piccoletti come quelli di uno dei più grandi geni dell’arte del XX secolo, Pablo Picasso, e come l’unica donna forse degna di essere ricordata (o di cui io voglio ricordare) tra le numerose che affiancarono l’incommensurabile artista nella sua lunga vita: Dora Maar. Ai tempi del liceo avevo studiato a fondo la storia di Guernica (il dipinto che Picasso realizzò nel 1937 per commemorare il bombardamento della cittadina basca da parte dell’aviazione nazi-fascista, facendo strage di civili) e in quell’occasione avevo scoperto chi fosse, in realtà, Dora. Lei gli era accanto in quella fase di ritorno alla pittura (dopo due anni di vuoto creativo) e testimoniò tutte le fasi di realizzazione del dipinto attraverso uno splendido ed esaustivo reportage fotografico.
Dora non fu né moglie di Picasso (a differenza di Olga, la ballerina russa dell’entourage di Diaghilev) né madre di alcuno dei suoi figli. Non poteva averne. Forse non fu nemmeno una delle sue più appassionate conquiste amorose, da consumare tra le lenzuola, ma fu certamente una donna che seppe dargli del filo da torcere, intellettualmente. La sua, forse unica, compagna, nel senso più alto (e paritario) del termine.
Quando si incontrarono, a Parigi, al locale chiamato Deux-Magots – il ritrovo preferito dai surrealisti – Picasso aveva 53 anni e Dora 28. A presentarli fu l’amico comune, il poeta Paul Éluard: la sera in cui si conobbero Pablo rimase affascinato dalla risolutezza con la quale Dora stava compiendo un gioco macabro. “Sfilatisi i guanti – neri, con un delicato ricamo di rose – aveva preso un coltello affilato e, posando sul tavolo l’esile mano affusolata dalle unghie rosso rubino, aveva cominciato a colpire, via via più rapidamente, il legno tra un dito e l’altro. A un certo punto, per un movimento sbagliato s’era ferita, ma aveva ugualmente continuato il gioco, mentre la mano si copriva di sangue”.*

Dora Maar, al secolo Henriette Theodora Marković, di origine franco croata, con quella chioma folta di capelli neri, il mento appena sporgente in avanti e uno sguardo fiero, severo, lei così indipendente e libertina, non seppe (o non volle) resistere alle malie del grande Picasso. Ma stare a fianco di uno degli uomini più affascinanti e smaccatamente donnaioli dell’Europa del secolo scorso non fu un’impresa facile, e Dora ne subì, suo malgrado, le conseguenze.
Ma procediamo con ordine.

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OPEN STUDIO – oggi Vicenza scopre gli studi d’artista

Scoprire cosa si cela all’interno di uno studio d’artista non è sempre così semplice. Spesso questi sono luoghi suscettibili del “senso dell’ordine” di chi ci crea all’interno, inavvicinabili dai “non addetti ai lavori”, frequentati dai suoi avventori ad orari improbabili, semisconosciuti…

Olivares cut assieme a The Soul in The Mirror (alter ego della blogger Teresa Francesca Giffone) provano a trasmettere la loro curiosità alla città di Vicenza. Abbiamo rivolto a diversi artisti l’invito a partecipare alla “puntata zero” di OPEN STUDIO, e al pubblico vicentino di avventurarsi tra opere d’arte e artisti disposti a far conoscere il proprio lavoro.

OPEN STUDIO zero > OGGI DOMENICA 11 MAGGIO
Dalle ore 16 alle 20 gli spazi sono aperti al pubblico a ingresso libero.
Durante tutto il pomeriggio si susseguiranno alcuni eventi. Questo il programma completo:

SARTORIA LARA COSSÈR – Contrà San Marco 39
Lara Giuriati presenta una capsule collection di abiti studiati su alcune campionature di Mirella Spinella. Enrico Larese Filon curerà la selezione musicale.
Manuel Pablo Pace espone alcuni lavori della sua più recente produzione artistica.

SPAZIO 6 – Contrà San Pietro 6
Lo spazio, sorto nelle stanze dello storico studio fotografico di Attilio Pavin, propone dalle 10.30 alle 16.30 una MARATONA FOTOGRAFICA alla quale ci si può iscrivere in loco.
18.30 Inaugurazione della mostra fotografica GENIUS LOCI di Marco Fogarolo.

DER RUF – Contrà Porta Padova 89
Nello studio dall’atmosfera berlinese Patrizia Peruffo esporrà i suoi taccuini di design, mentre Giusto Pilan presenterà la sua ultima produzione pittorica e di incisioni.
17.30 Mirko Cremasco presenta “VIAGGIO”, performance con voce narrante e istallazione.

INCIPIT – Strada Ponti di Debba 5
Questo splendido open space di retaggio industriale ospita gli studi di Andrea GarzottoBruno LuccaDaniele Monarca e Valentina Rosset.
Per l’occasione il Collettivo Jennifer rosa (esule per un giorno dallo spazio VOLL) presenterà in anteprima la proiezione della videoinstallazione “GEMELLI” (in loop per tutto il corso della giornata).
19.30 “IL CERCHIO E IL LUPO”, spettacolo teatrale di Davide Dal Pra

PER INFO: 348 0435597 / 349 8417314
OPPURE scrivere a petra.cason@gmail.com / tfgiffone84@gmail.com

Da “The Soul in The Mirror”
APPROFONDIMENTI SUGLI SPAZI
APPROFONDIMENTI SUGLI ARTISTI

MAPPA DEGLI SPAZI 

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La mia TOP FIVE di Magnum Contact Sheets

Manca poco meno di una settimana alla chiusura di una delle più belle mostre esposte a Vicenza negli ultimi mesi e pertanto vi dedico la mia Top Five, le mie cinque fotografie preferite tra le molte esposte. Forse non saranno le più belle, forse ne avrei potute scegliere altre. Ma si sà, le Top Five sono così: ne devi scegliere solo cinque. Come faceva il protagonista di Alta Fedeltà di Nick Hornby. Ve lo ricordate?
E stavolta ho scelto queste.

Magnum Contact Sheets. In mostra, per riassumere brevemente, foto più o meno famose con a fianco i corrispondenti (semisconosciuti ai più) provini a contatto, foto 1:1 che mostrano un primo sviluppo dei negativi compiuti dal fotografo, dai quali si fa la selezione delle immagini da tenere: per un servizio, una pubblicazione, una mostra… I fotografi scelti sono pezzi da novanta, tra le fila dell’agenzia Magnum, una delle più importanti al mondo, nata nel 1947 in forma di cooperativa spontanea per tutelare i diritti e il lavoro dei fotografi stessi. Scatti dal 1936 al 2010, un excursus storico documentaristico di respiro internazionale.

E ora, via con la Top Five.

Quinto posto: DALÍ ATOMICO di Philippe Halsman
Fotografo di origine lettone, prima di finire in Francia a lavorare per Vogue Halsman aveva studiato a Dresda ingegneria elettrica e si era fatto qualche buon anno di carcere con accusa di omicidio (pare infondata) per la morte del padre. Dagli anni Cinquanta cominciò a produrre ritratti inconsueti, di persone famose, alle quali chiedeva di saltare mentre scattava. La serie di immagini che ne uscì, e si compose in qualche decennio, era intitolata Jump – e Jumpology la “teoria” che in seguito venne costruita sul suo lavoro: disinibire le pose che la vita ci insegna a mantenere per non lasciar trasparire dall’espressione del viso le emozioni. Un salto non ti permette di mentire: e così gli scatti riuscivano a mettere a nudo le ambizioni, le timidezze, forse il vero carattere dei soggetti ritratti.
Ma il salto di Dalì, il pazzo surrealista, uno che era abituato a fare ben altri salti (come ad esempio lanciarsi dalle scale o dalle finestre “per vedere l’effetto che fa”), nello scatto di Halsman mostra qualcosa di meno scontato: più che la Jumpology del fotografo mette in scena (in un altrettanto surreale teatrino fatto di 6 ore di tentativi, 28 lanci di gatti e altrettante secchiate d’acqua, sangue e sudore di quattro assistenti, di Yvonne la moglie di Halsman, del fotografo e di Dalì stesso) la direzione verso la quale la pittura stessa di Dalì si stava dirigendo. La doppia esplosione atomica del 1945 aveva colpito Dalì al punto tale da fargli virare drasticamente il suo modo di fare arte, avviando una reinterpretazione dei legami tra le cose del mondo secondo i principi che uniscono (o scindono) tra loro gli atomi. Infatti, il dipinto che a malapena si vede a destra della foto è il “manifesto pittorico” della poetica daliniana che si può sintetizzare in “mistica atomica”, Leda Atomica: un approccio fisico e scientifico allo scibile, filtrato da un’introspezione in bilico tra il religioso e il superstizioso, con un recupero palese dei dettami rinascimentali nelle forme e nelle strutture compositive.
Ecco, ora vedeteci molto più di un’incredibile acrobazia. (P.s. è pellicola. Non esisteva photoshop. Scordatevi la postproduzione.).

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Quarto posto: INVASIONE DI PRAGA di Josef Koudelka
Quel polso che si sporge, in primo piano, sulla strada di una Praga deserta, non so dirlo se fosse quello di Josef Koudelka, l’ingegnere aeronautico che decise di rendere testimonianza a ciò che stava avvenendo nella sua terra attraverso un mastodontico reportage dell’invasione di Praga. L’orologio riporta l’attenzione al tempo, congelato per sempre nell’immagine fotografica, di un giorno da dimenticare nell’attesa che i carriarmati russi entrassero a distruggere il vento fresco di liberalizzazione che la Primavera aveva portato nella capitale cecoslovacca, in contrasto con le restrizioni dettate dall’impero sovietico.
Koudelka in pochi giorni, nell’agosto del ’68, scattò all’impazzata un numero impressionante di fotografie. Usò pellicola da cinema, anzichè quella fotografica, perchè costava di meno. A Koudelka, che al tempo non era un fotografo di professione ma divenne un esempio per i fotoreporter venuti dopo di lui, questo gigantesco lavoro di documentazione costò l’esilio forzato dalla sua terra per oltre vent’anni, l’abbandono dei propri genitori che lo videro una sola volta dopo la sua dipartita, e una fama che gli venne giustamente attribuita, seppure a posteriori, da parte di Magnum. L’agenzia si mise sulle sue tracce finchè riuscì a scovare l’identità del “fotografo praghese”, che così aveva firmato i numerosi scatti giunti fortunosamente sulle scrivanie dell’allora presidente Elliot Erwitt. Dopo Quarant’anni venne pubblicato un libro che raccoglie tutti gli scatti più importanti realizzati in quell’occasione, che commuove Koudelka ancora oggi, mentre lo sfoglia.

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Terzo posto: 11 SETTEMBRE 2001 di Thomas Hoepker
Quando il primo aereo andò ad infilarsi dritto come un fuso dentro ad una delle due Torri Gemelle nel cuore di una radiosa New York, Hoepker si trovava nel versante cittadino opposto al Word Trade Center. Lo chiamarono da Magnum: doveva muoversi, per andare a raccogliere testimonianza di ciò che stava avvenendo. Hoepker si precipitò per le strade di Manhattan in auto, tentando di avvicinarsi – invano – il più possibile alla zona che in seguito fu ribattezzata “Ground Zero”, ormai presidiata dalla polizia. Costeggiando l’East River, continuando a tenere d’occhio il fumo all’orizzonte che si alzava alto sopra le sagome dei grattaceli, si fermò a una piazzola di sosta, a scattare, dal finestrino dell’auto, il cielo azzurro di quella luminosa mattina di settembre coperto da una spaventosa nube grigia.
Il giorno dopo, negli studi di Magnum, le diapositive di Hoepker parevano ben poca cosa di fronte a quelle dei colleghi che si trovavano al momento della tragedia proprio sotto le Torri. Ma a distanza di alcuni anni i suoi scatti vennero ripresi e rivalutati, e questo sotto, in particolare, divenne una delle foto più conosciute e discusse di Hoepker. Perchè qui le Torri sono “relegate” al background, ma in primo piano non ci sono solo dei giovani seduti a chiacchierare. C’è l’emblema di un’America bella e invincibile, che niente doveva temere, colta nell’attimo prima di prendere consapevolezza dell’accaduto, quando capisce di trovarsi di fronte alla fine di un’epoca che nessun capitalismo potrà più riconsegnarle.

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Secondo posto: CARNIVAL STRIPPER di Susan Meiselas
Susan trascorse le sue estati tra il ’72 e il ’75 girando mezza America con l’idea di scattare fotografie alle ragazze che, per sbarcare il lunario, si spogliavano negli spettacolini che popolavano le piccole città del New England, Pennsylvania, Sud Carolina. Meiselas non fotografò solo le “ballerine”, ma anche i gestori di questi improbabili carrozzoni, i clienti paganti e i fidanzati delle ragazze, facendone uscire un quadro decadente, un po’ kitsch ai nostri occhi, ma anche con un suo fascino, allegro a tratti.
La fotografa sviluppava i negativi ogni settimana, ma accadeva a volte che, quando tornava a bussare alle porte dei camerini della carovana per regalare alle ragazze alcuni loro ritratti, non le aprisse nessuno, perchè da un giorno all’altro queste avevano la buona abitudine di scappare con qualche “fidanzato”, chissà forse inseguendo il sogno americano, forse solo un futuro diverso.
La foto che preferisco è questa sotto. Non è stata scattata durante uno degli spettacoli, ma nell’intimità del camerino, quando le ragazze si preparavano allo specchio, o si riposavano tra uno spogliarello e l’altro fumando e chiacchierando, dimenticandosi che Susan era lì con loro e scattava con la sua Leica portatile, ritraendo i loro corpi svestiti quanto le loro espressioni stanche.

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Primo posto: SABINE di Jacob Aue Sobol
La ragazzina paffuta delle foto è Sabine, la fidanzata di Sobol. Di origini danesi, Sobol andò in Groelandia nel 1999, per fotografare il villaggio sperduto di Tiniteqilaaq. Doveva rimanerci solo per qualche settimana, invece durante quel soggiorno conobbe Sabine, e si innamorò di lei. Tornò in Groenlandia alcuni mesi più tardi, e ci restò per i due anni successivi, diventando cacciatore e pescatore. In quel periodo la macchina fotografica la usò soprattutto per ritrarre la sua amata, che fa le facce strane di fronte all’obiettivo, che si passa sul corpo nudo una pezzuola di pelle di foca, che accende delle candele sopra il davanzale della finestra per sciogliere il ghiaccio all’interno dei vetri. Mentre disegna un cuore con le due mani davanti al suo volto.
Mi provoca una fitta tutte le volte che la guardo. I due si lasciarono, alla fine. E le foto scattate nella scarna camera da letto sepolta tra i ghiacci artici, sui materassi di gommapiuma a fianco dei fucili per ammazzare le foche, odorosi del merluzzo bollito che la madre di Sabine preparava ai due per colazione, divennero la “memoria del cuore”, come disse Sobol in un’intervista fattagli ad Arles alcuni anni più tardi, durante il Festival della Fotografia.
Un libro pubblicato nel 2004, e intitolato semplicemente “Sabine”, racchiude la loro storia d’amore in bianco e nero, adagiata nel racconto più ampio della complessa e semisconosciuta cultura groenlandese.

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Ecco.
MAGNUM CONTACT SHEETS. Gallerie di palazzo Leoni Montanari. Contrà Santa Corona 25, Vicenza.
La mostra è aperta fino a domenica 11 maggio, dalle 10 alle 18.
Non capitate a Palazzo Leoni Montanari dopo le 17.30 però. Perchè non vi faranno entrare neanche se canterete in turco.

 

 

 

 

 

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