Labirinto morbido

La sensazione è quella di camminare in un paesaggio innevato, quando si è completamente circondati da un manto bianco e i rumori vengono magicamente attutiti. Solo che in questo caso la neve è sostituita da 7500 mq di moquette stampata con i motivi dei tappeti orientali. Intere stanze di Palazzo Grassi, l’atrio dell’ingresso, la grande scalinata, le colonne, il primo e il secondo piano: un’unica immensa distesa di soffice pelo. Alla terza sala ho già completamente perso l’orientamento, e ho una gran voglia di stendermi, e di togliermi le scarpe e percorrere scalza questo labirinto.

E’ inconsueto per Palazzo Grassi, da quando re Pinault ha insediato lì la sua scintillante corte, ospitare l’opera di un unico artista, ma questo “solo show” necessitava di tutto lo spazio a disposizione, per rendere l’idea di estensione della materia sulla superficie. E’ la dilatazione di un concetto (la sovrapposizione dell’opera d’arte con l’ambiente in cui questa si insedia) portato quasi all’esasperazione in questa “site specific” dal suo autore, il meranese Rudolf Stingel.

Se questa operazione può apparire eccentrica, esageratamente sovradimensionata, uno spreco (ci siamo chiesti dove andrà a finire tutta quella moquette una volta conclusa la mostra…), se guardo al passato vedo come, in realtà, questa operazione di sovrapposizione fosse all’ordine del giorno. Come non farsi venire alla mente il poco lontano Palazzo Fortuny, anch’esso completamente tappezzato di stoffe (pareti e soffitto, in questo caso), apoteosi del decorativismo ecclettico del caro Mariano.

Angela Vettese, nel suo Si fa con tutto, quando parla di come solo nel corso dell’ottocento si sia spezzato l’antico sodalizio tra arte visiva e dimensione architettonica, racconta: “L’arte visiva si è sempre proposta come ricostruzione di un ambiente e della sua capacità di modificarne la percezione, dai graffiti rupestri alla Cappella Sistina, dalla tomba dei Medici di Michelangelo alle cupole di Correggio a Parma. (…) Nell’allargare la dimensione dell’opera da quella di un quadro o di un oggetto a quella di un ambiente, interno o esterno che sia, non c’è tradimento ma anzi recupero della tradizione; e forse, andando ancora più lontano, rinvenimento di una condizione ancestrale dell’arte stessa.”

Assieme alla sensazione di straniamento che questa insolita “moschea dell’arte” provoca, quello che ho soprannominato il “Trionfo della morte” esposto al secondo piano vale il viaggio. Per realizzare questo e gli altri dipinti ad olio ospitati tra i meandri stampati della moquette di questa sezione, Stingel parte dalle foto in b/n di statue lignee antiche. Il cavaliere scheletrito, a cavallo di un rigido leone trecentesco, sembra tema di venire scaraventato a terra dalle falcate della bestia immobile…Il macabro qui lascia il posto al sarcasmo.

Si esce dalla mostra con un ghigno beffardo sul volto..

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http://www.palazzograssi.it/mostre/rudolf-stingel

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