Raccontami una storia. Riflessioni a freddo su INTERNO 6

Monica è seduta ai piedi della gradinata del piccolo teatro. É lí fin dall’ingresso del primo spettatore in sala. Da dove sono seduta vedo le sue spalle sottili, la pelle bianca, le spalline del reggiseno, bianco anch’esso, e la canotta fucsia, coperta in parte dai capelli argentei, raccolti in una piccola coda. Non si muove di lì finchè le luci in sala non si spengono, lasciando il posto ai proiettori accesi sopra il piccolo palcoscenico.

Un tappeto arancione è il limite invalicabile della scena di quello che è il vero protagonista di INTERNO 6, Vasco.

Nessuna musica, rumori di scena piuttosto. Alcuni identificabili, come il ticchettio di passi, o l’abbaiare di cani; altri sconnessi, sporadici, difficili da definire. Rompono raramente il silenzio che accompagna le azioni dei due performer. Vasco, frontale al pubblico, una volta entrato nel rettangolo arancione si leva e torna a indossare la sua maglia verde, più volte, spesso senza portare a compimento i due gesti mettere/togliere, creando già così una danza nella danza, fatta dalla relazione tra la stoffa e la pelle.

Monica accende e spegne una piccola radio a pile, oggetto in scena che, assieme a due sedie, è l’unico tentativo di scenografia.

Un rotolo di nastro di carta è l’altro oggetto a varcare il campo d’azione: Monica lo usa per creare delle X sul tappeto, delle linee sulla sedia di velluto blu. Vasco interagisce con le X, le esplora fermandocisi sopra, nuova frontiera al suo campo d’azione. In un crescendo di tensione egli fa muovere il proprio corpo, che vaga quasi senza posa all’interno del perimetro arancione, come fosse in preda a delle controllate convulsioni. Non si muove dal suo posto, ma ogni suo muscolo è scosso. Le convulsioni, portate all’esasperazione, si bloccano di scatto. Ed è di nuovo silenzio.

Il ritorno alla quiete è rotto dalla radio che Monica sposta dal pavimento alla sedia lasciata fuori dal rettangolo della scena. Ha il volume piuttosto basso, ma si percepiscono le parole di una conversazione tra due persone.

Lo scricchiolio dei sandali neri di Monica, quando si muove sulla scena, nell’attrito con i suoi piedi, è un rumore che dà quasi sui nervi, a volte. Fanno a pugni il rosso della sua gonna con il fucsia della maglia, che a un certo punto toglie e appoggia sullo schienale della sedia in scena. Il biancore del suo torso è accecante. Si sdraia a terra e si rannicchia su se stessa.

Vasco usa delle parole, poche, quasi impercettibili, come coadiuvanti alla scena. “Sedia, parete, tavolo viola”. Elementi che nella mia mente vanno a sommarsi alla scarna scenografia reale.

Monica entra ed esce dal rettangolo, si avvicina a Vasco, gli sussurra delle parole, incomprensibili per noi, ignari spettatori. Solo il sibilo della sua voce è percepito. Mentre lei parla, lui le cinge lentamente un fianco. Il suo volto teso allenta i lineamenti, sembra muti in un sorriso abbozzato.

Ora a scuotere il corpo di Vasco non sono più convulsioni, ma delle cadute. Cade e si rialza. Compie sul tappeto, come in una danza zoppa, pochi passi incerti. Poi cade a terra, di peso, ma subito si rialza, e incede claudicante. Ogni volta cade e si rialza, ancora e ancora.

La danza contemporanea è fatica fisica. Ogni azione è caricata da una tensione che sfiora la violenza (io non posso fare a meno di associare la performance agli insegnamenti di Marina Abramovic. La violenza con la quale si colpisce durante le sue azioni è inaudita. Se così non fosse – lei sostiene – lo spettatore non si lascerebbe convincere della “bontà” dell’azione, della sua veridicità). Lo spettatore ne sente il peso.
La danza a sghimbescio di Vasco, le sue convulsioni, le poche parole sconnesse, la tensione del suo corpo, la stanchezza palese, il sudore sul suo volto fermo, tutto entro il campo arancione.

Il silenzio verbale di Monica, lo scalpiccio delle sue scarpe, il suo incessante andirivieni a zigzag fuori e dentro alla scena, fuori e dentro il perimetro sacrale, il rumore dello scotch che applica sulla scena. La sua presenza/non presenza. I momenti brevissimi di unione tra i due performer. Senza questi punti di contatto le loro azioni sarebbero sembrate appartenere a due percorsi paralleli, che avrebbero potuto coesistere senza mai incontrarsi.

(La radio chiude la performance facendoci ascoltare, per puro caso, una canzone strappalacrime degli anni Cinquanta). Applausi. Uscita di scena.)

Quale significato ha tutto ciò?

Il Teatro Spazio Bixio si svuota lentamente dei suoi spettatori che, al riparo dalla pioggia battente e dal freddo tutt’altro che primaverile di ieri sera, si soffermano a fumare e a scambiarsi le impressioni sullo spettacolo appena concluso.
Appena mi trovo a tu per tu con Chiara Bortoli, (danzatrice, mente e corpo del collettivo artistico Jennifer rosa) coreografa della performance INTERNO 6 appena conclusa, le pongo quello che era l’interrogativo che, fin dall’inizio dello spettacolo, mi ronzava in testa:quanta necessità c’è di conoscere ciò che sta alla base dell’ideazione di una performance, per comprenderne appieno il significato?
O, più semplicemente, c’è bisogno di conoscere il linguaggio della danza contemporanea per poterlo apprezzare? Non si corre il rischio di non capire, di non giungere al nocciolo della questione, non avendo nel nostro bagaglio conoscitivo gli elementi per decodificare i segni che ci compaiono davanti durante una performance?
Se non conosco una lingua straniera, se non so leggerne i caratteri, non sarò in grado di comprendere neppure la frase più semplice.
Ma Chiara non è, esattamente, della mia stessa opinione.
Mi racconta l’evoluzione di questo lavoro, ideato nel 2008 e già messo in scena a Berlino e in Francia; di come inizialmente fosse stato pensato come un monologo (con solo un danzatore) che avrebbe dovuto sottostare, nel compiere le sue azioni sulla scena, alle indicazioni impartitegli dall’i-pod che avrebbe dovuto tenere alle orecchie. E di come poi sia subentrata una seconda figura, che con la sua azione scardinava l’equilibrio del monologo con il suo percorso, talvolta parallello, talvolta trasversale, a quello del primo performer.
Le azioni che si susseguono per tutta la durata del pezzo sono tra loro slegate, così come la relazione sul palco dei due protagonisti. Ma lo spettatore, più o meno conscio di ciò che la danza contemporanea tende a nascondere o disvelare, non riesce, non vuole vedere questa incongruenza di gesti, ma si costringe a vederne una storia.
Chi ha assistito allo spettacolo parla di disagio sociale, di frenesia della vita moderna. C’è chi vede l’incapacità al dialogo, all’incontro con l’altro. L’incomprensione, la sofferenza, la malattia. La rottura di un rapporto di coppia, l’intimità ritrovata. L’occhio guarda, la mente elabora. E riconduce le azioni a simboli noti. Tutto questo per un unico motivo: essere in grado di raccontarsi una storia. La danza tocca corde che vanno oltre la comprensione cerebrale dei codici di un linguaggio.
Ognuno di noi, spettatori, si è raccontato una storia, portando in INTERNO 6 la propria vicenda personale, la propria esperienza di vita vissuta.
Io non posso fare a meno di ricordare il mio primo approccio allo studio dell’arte contemporanea. Quasi vent’anni fa ormai, l’insegnante di storia dell’arte aveva consegnato alla classe delle cartoline, ognuna con la riproduzione di famose opere astratte (a noi studentelli assolutamente sconosciute). Il compito prevedeva la descrizione di ciò che vedevamo, null’altro.
A me era capitato un acquerello di Kandinsky. Ancora sorrido nel ripensare con quale metodo ho riportato sul mio testo ciò che il mio occhio era riuscito a decifrare. Erano solo forme geometriche. Tondi, quadrati, ancora tondi, macchie informi, pallini, bolle. Ma, con grande ingenuità, ritenevo non fosse possibile non ci fosse nient’altro da dire. Con uno sforzo enorme ero riuscita a ritrovare, all’interno dell’acquerello, una sala da pranzo ripresa dall’alto, con un tavolo al centro, forse dei piatti apparecchiati, un lampadario, delle sedie e, chissà, forse anche dei commensali pronti a cenare!
Com’è vero! Di fronte a ciò che non conosce, l’uomo, per non spaventarsi, è sempre pronto a raccontarsi delle storie…

 

Jennifer rosa – INTERNO 6 (photo by Andrea Rosset)
Performance tenutasi al Teatro Spazio Bixio sabato 23 marzo 2013. Testo scritto domenica 24 marzo 2013.

Facebook Twitter Pinterest

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *