Posts in Category: RACCONTI D’ARTE

“Bye Bye Ulay”. Addio a Metamorfosi Gallery

Ho bisogno di una memoria storica.
Mentre pensavo a come raccontare del mio “adieu” a Metamorfosi Gallery, mi è tornata alla mente quella famosa cantilena di Marina Abramovic, in cui lei, chiusa la relazione con Ulay, il suo inseparabile compagno, nella vita e nell’arte – ambiti che così spesso coincidevano, o si fondevano indissolubilmente – recitava come un mantra, all’interno di non ricordo più quale performance. Bye-bye, Extremes. Bye-bye, Purity. Bye-bye, Togetherness. Bye-bye, Intensity. Bye-bye, Jealously. Bye-bye, Structure. Bye-bye, Tibetans. Bye-bye, Danger. Bye-bye, Unhappiness. Bye-bye, Solitude. Bye-bye, Tears. Bye-bye, Ulay.

Con la separazione terminava un periodo storico, per Marina e Ulay. Il tempo delle performance estreme, della tensione emotiva, del rapporto simbiotico e folle che sperimentava gli eccessi. Finiva una fase importante della loro vita, e della loro carriera. Poi via, ognun per sè.
Ora. Certo che non voglio paragonare la mia dipartita da un’associazione alla separazione di due dei più grandi performer e artisti degli ultimi anni ma, credete (alla mia vena melodrammatica, soprattutto) le separazioni, alla fine, si assomigliano un po’ tutte.
Il mio rapporto con la vita e con l’arte intese come un legame simbiotico hanno fatto sì che io non sia mai stata in grado di vedere ciò di cui mi occupo come un passatempo, per cui riversare me stessa all’interno di un progetto in cui credo non è stato solo naturale, ma inevitabile.
Per questo la decisione di lasciare un progetto al quale ho dato i natali, ho dedicato anni di energie, idee e tempo, per creare, per intessere relazioni, è paragonabile all’abbandono di un amante, con tutto il carico di emozioni che una separazione comporta.

Il 15 maggio cadeva il terzo anniversario della fondazione di Metamorfosi Gallery. E io ho deciso, armi e bagagli, di uscirmene, di lasciare.
Lascio, dopo averci dedicato tutto l’amore di cui sono stata in grado, per voltare pagina, per cambiare metodo, per andare avanti.
Tre anni che sono stati per me di intenso lavoro, non solo con Angela Stefani ed Elena Piazza (con le quali all’inizio condividevo anche Palazzo Leoni Montanari) ma anche assieme ad una rete fittissima di artisti, curatori, istituzioni, partner, amici cari, i quali hanno collaborato, anche fuori dalle fila, a rendere Metamorfosi Gallery quello che è stata.

Nel 2010 mi chiamarono un artista, Emjl Berdin, e l’allora assessore alla cultura del Comune di Dueville, Michele Cisco, per parlarmi della piccola esposizione, Metamorfosi, che raccoglieva le opere degli artisti italiani, di Dueville, e degli artisti di Schorndorf (la cittadina tedesca a poche decine di km da Stoccarda) e per chiedermi di occuparmene.
Ecco quanto. Non avrei creduto che una piccola mostra sarebbe diventata il pretesto (e avrebbe dato il nome) per un progetto a lungo termine, e che divenne, nel 2012, un’associazione, in occasione di K/R/S, la grande mostra che realizzammo a Caldogno, nello spazio espositivo C4, un bunker della Seconda Guerra Mondiale. Il gemellaggio tra Dueville, Schorndorf e Tulle è continuato per anni, e prosegue tutt’ora, non senza difficoltà. Non ricordo più quanti artisti parteciparono, con centinaia di opere, due camion per trasportarle in giro per l’Europa e migliaia di km di spostamento.

545994_4246705613581_552943080_n

Inaugurazione di K/R/S a caldogno nel settembre 2012

Quel gemellaggio produsse mostre grandi e piccole, come Micrometamorfosi alla biblioteca di Dueville la prima edizione, e nel 2013 anche ospiti di Spazio Nadir a Vicenza. Il sodalizio con la Germania fu lungo. Un anno (nel 2010) portai le opere da esporre alla Notte dell’Arte (la Kunstnacht di Schorndorf) stivate dentro un cassone che pareva il baule di un enorme trasloco.

Il baule con le opere d'arte nel van di Uko

Il baule con le opere d’arte nel van di Uko

L’anno successivo, sempre a settembre, io e Ale affrontammo in tre giorni un viaggio di quasi venti ore, tra andata e ritorno, con la Panda colma di quadri. Sembravamo degli esuli, o dei ladri di opere d’arte. Ma la mostra in Germania fu spettacolare.
Nel 2012 salimmo tutti, io, Angela ed Elena, e vennero con noi anche alcuni degli artisti che esponevano e qualche amico: Andrea ed Elena, Marco con Marianna, Hzg. Ci ospitarono gli amici tedeschi. Doro, Uko, Hardy, EBBA. Fu un viaggio memorabile.

Delegazione italiana alla Kunststrasse 2012

Delegazione italiana alla Kunststrasse 2012

Ora non ha neppure molto senso cercare di disporre i ricordi in ordine cronologico. Perchè sapete come funziona la memoria, confonde le cose secondo criteri che sono del tutto arbitrari.
Per cui racconto di GHISA Art Fusion come fosse un progetto a se stante, quando invece si è protratto per tre anni, mischiandosi nel frattempo ad altri progetti. Ideato assieme ad Anna Zerbaro, Ghisa (che inizialmente doveva chiamarsi Ghisa e Contrabbasso, perchè univa le location scledensi dell’archeologia industriale  – altra mia passione, dai tempi del master all’Università di Padova, in conservazione del patrimonio industriale – alla parte musicale che in un primo momento fu preponderante) venne portato avanti con MG.
Poi si insinuò l’arte, “Contrabbasso” fu estromessa quasi subito a favore di un più ampio “art fusion” e Alessandro Giacomelli (che al tempo era il mio compagno e che non smise mai di prendersi cura della grafica dei miei progetti) ideò uno dei loghi più belli di sempre, realizzato pensando alle strutture in ghisa dell’Iron Bridge, il ponte che attraversa il Severn. Uno dei più antichi ponti in ghisa del Regno Unito, il simbolo dell’evoluzione della tecnologia protoindustriale, che aveva una trama, nelle nervature che sorreggevano il suo arco di 30 metri, che ci piaceva moltissimo. Hzg, con quel logo, realizzò sulle borse di cotone delle serigrafie perfette, in un grigio cupo che ricordava proprio il tono del metallo.
524970_252096828231173_1140501965_n
Durante i tre anni di GHISA passarono per il Lanificio Conte, lo Shed, il Giardino Jacquard e Fabbrica Saccardo moltissimi artisti, pittori, scultori, incisori, fotografi, musicisti, performer, che a nominarli tutti rischierei di fare un elenco troppo lungo per un post come questo. Ma credo che molti di voi ricordino le splendide domeniche sera passate a Schio in nostra compagnia a scoprire, passo passo, la rassegna che evolveva.

Jennifer rosa a GHISA del 2013

Jennifer rosa a GHISA del 2013

L’amicizia con Mattia Stella portò al coinvolgimento di Metamorfosi Gallery all’interno degli eventi che portarono Vicenza, nel 2013 al primo Vicenza Pride. Ci furono quattro piccole ma bellissime mostre, per la rassegna Art Coming Out, che vennerò ospitate nei bar del centro storico di Vicenza, per cominciare a parlare di omossessualità in termini meno criptici o banalizzanti, ossia attraverso il linguaggio incisivo e allo stesso tempo delicato dell’arte. E poi la grande mostra al B55, la collettiva alla quale aderirono artisti da tutta Italia: Io sono diverso. Cristina Maraschin per quell’occasione aveva seguito tutta la grafica, ideando il logo che divenne, anche in questo caso, un simbolo che sa rimanere nel tempo, a memoria della partecipazione di MG ad un evento così importante per la nostra città.

L'inaugurazione di IO SONO DIVERSO, 2013

L’inaugurazione di IO SONO DIVERSO, 2013

E poi venne il tango. Dopo aver appeso al chiodo le scarpe delle danze scozzesi (lo so, in pochi di voi sanno questo aspetto del mio passato) mi gettai anima e corpo in quel ballo malinconico e intenso, che si crede di ballare in due, ma in realtà è in grado di mettere in comunicazione con se stessi in un modo così profondo da sconvolgere.
Al solito, la mia passione non è in grado di rimanere solo mia. Devo coinvolgere chi mi sta attorno nel vortice. Pertanto, prima portai più di un amico ai corsi, qualcuno fuggì subito, altri – come Caterina – rimasero e ancora condividono con me questa vocazione. Ma poi (ancora Dueville) l’occasione di avere il Busnelli Giardino Magico a disposizione era un’attrattiva troppo grande per non voler organizzarci una milonga. Detto, fatto: l’ideazione di Nocturna Tango. Che quest’anno è arrivata alla quarta edizione, e nel frattempo si è spostata da Dueville a Vicenza, dagli amici del Bocciodromo che hanno accolto la rassegna a braccia aperte (alla quale ha contribuito con un aiuto prezioso Luisa Sabbatini), e ha fatto suonare ottimi musicisti e valenti musicalizadores, esposto mostre sul tango, fatto assaggiare piatti argentini, proiettato film a tema, fatto ascoltare ottima musica e fatto ballare centinaia di ballerini.

Nocturna Tango al Bocciodromo nel 2014

Nocturna Tango al Bocciodromo nel 2014

Ma ora. E’ cambiato il vento. Lascio Metamorfosi Gallery. Bye bye Ulay.
Provo a immergermi, attraverso Olivares cut (il mio personale “baule”, come quello con le opere d’arte che trascinavo per gli aeroporti di mezza Europa), immergermi ancora più profondamente nell’arte, provo a prendermi cura ancor più professionalmente di quanto sia stata in grado di fare finora degli artisti e della loro arte. Perchè (lo ribadisco a me stessa, sempre) avere un contatto con un artista non significa avere un numero di telefono in agenda. Ma significa guadagnarsi la fiducia attraverso la professionalità, dedicando il giusto tempo al lavoro di ciascuno, alla conoscenza del percorso artistico di ciascuno. E questo avviene tanto in uno studio quanto al di fuori, anche di fronte a un caffè o a un bicchiere di vino, portando l’arte dentro una quotidianità imbevuta di questa urgenza (nel senso di passione incondizionata) di fare, di curare, di fondere l’arte con il quotidiano.

Il ringraziamento, dovuto, va ai numerosi compagni del viaggio che per un po’ del mio percorso ha preso il nome di Metamorfosi Gallery, in primis Angela ed Elena.

Io continuerò a tenervi aggiornati dei miei spostamenti. Quasi sempre è per raccontare a voi. Ma sappiate che talvolta lo faccio per non permettere a me stessa di dimenticare.

 

Facebook Twitter Pinterest

Casa. Un racconto alla Deriva

Incontrai quel tale in treno. Stavo viaggiando alla volta di Treviso e mi imbattei in un uomo anziano, un’ottantina d’anni, all’incirca. Aveva una barbetta lunga e appuntita, da capro, e gli occhi vispi, che contrastavano con la pelle rugosa che li contornava. Con quelli scrutava l’intero scompartimento, saltando da un passeggero all’altro come cavallette affamate. Quando si fermò sui miei occhi cominciò a raccontare, senza un preambolo. E prese a narrarmi della Casa di Follina.

Mi disse che l’uomo che viveva in quella Casa era un artista, uno di quelli con la A maiuscola, e che la parlata, cadenzata e musicale, tradiva le sue origini emiliane. Ma il vecchio non si dilungò molto su dettagli come questi. Preferì raccontarmi di come, a Follina, la gente del posto avesse cominciato a vedere le cose più strane, dall’arrivo dell’Artista, come delle apparizioni…

10-Vivere-bene-con-deriva
Al calare del sole comparivano, tra i campi dietro Casa, esseri strani, come delle ombre. C’era chi si ostinava a credere fossero scherzi della mente, magari di chi aveva bevuto qualche bicchiere di troppo…Ma altri no, sostenevano fossero reali. Dicevano fossero sgusciate fuori dalla Casa attraverso le fessure tra i mattoni, appiattendosi come i topi o i serpenti, ma che, una volta giunte all’aperto, queste sagome scure si fossero sollevate in piedi assumendo fattezze umane. Parevano dei viandanti, avvolti in un pesante mantello, ma dicevano ci si potesse guardare attraverso: avevano un buco all’altezza del ventre, ma non i mantelli! Gli interi corpi di questi misteriosi signori. Gli si poteva guardare attraverso, e scorgere gli alberi e i campi dietro di loro.
Qualche temerario riuscì perfino a scorgere l’interno, della Casa: un ragazzino raccontò di aver visto cani correre in verticale sulle pareti, saltare e rincorrersi tra gli stendardi appesi, lasciandosi dietro, nel loro balzare, scie di colore nerastro. Stormi di uccelli migratori vivevano sulla mensola sopra il camino, e passavano le giornate intingendo le zampe nel lievito madre (un intruglio misterioso di colore e acqua che l’Artista teneva costantemente apparecchiato sopra il tavolo da lavoro) come fossero gambe di sedano in pinzimonio per poi saltellare per lo studio riempiendo di macchie le carte ben stese sul pavimento. “Avrebbe dovuto vedere quelle carte!”, diceva il vecchio. L’Artista le aveva trovate in vecchi archivi polverosi e, su quelle, le bestiole starnazzanti andavano a posarsi. Ora si appollaiavano sulle trame delle stoffe che pendevano dal soffitto, piramidi di piume in bilico. Ora invece compivano piccole migrazioni tra lo studio e il salotto: avevano confuso in dentro con il fuori, e non c’era verso di farli smettere nella loro buffa impresa. Alcuni di loro, compiendo questi insoliti traslochi, si portavano dietro grossi tronchi, o massi franati. Li tenevano legati a dei fili sottili ed ogni filo era stretto nel becco. Le partenze erano sempre complesse, e nella foga di alzarsi in volo capitò che un tronco andasse a sbattere sui barattoli di colore che stavano sopra la cassettiera, macchiando le tele sottostanti. 3-Trasloco

Facebook Twitter Pinterest

La faccia oscura dell’arte

Ricevo una telefonata in tarda mattinata, sabato. E’ Elena Dal Molin, corpo e mente di Atipografia. Mi chiama per chiedermi di intervistare – per la web radio dell’associazione – i protagonisti della serata. Detto, fatto. Dopo poche ore mi ritrovo dietro la spessa tenda nera che divide lo spazio espositivo di questa meravigliosa ex tipografia (trasformata in luogo dedicato al contemporaneo) dalla saletta dedicata alle registazioni con, a fianco a me, uno alla volta, Carlo Bernardini, artista visionario che ha appena inaugurato la personale dal titolo Coordinate Invisibili, Luigi Meneghelli, un critico-poeta (come lo chiama Elena) e Claudio Cervelli, light designer e uomo di squisita sensibilità.
Questo un piccolo racconto della mostra, fresca di inaugurazione.

Atipografia non ha niente a che vedere con le gallerie intonse, dalle grandi pareti bianche, dentro delicatissimi spazi architettonici progettati dalle archistar e pieni di limitazioni, dice Carlo Bernardini. Coordinate invisibili, questo il titolo della sua personale, è nato con e dalla relazione con quello che è uno spazio crudo, fortemente caratterizzato, legato inscindibilmente al suo passato, di questa storica tipografia della provincia vicentina, ma che, con le sue pareti scrostate – che mostrano la nuda pelle dei mattoni – e le ampie vetrate piombate, si presenta come una “vera e propria palestra” per l’artista e la sua ricerca artistica. Bernardini ha inteso l’asprezza del luogo, le difficoltà oggettive dello spazio, come un valore aggiunto al suo lavoro, site specific per antonomasia. “Vedere è soprattutto ‘vedere il problema’ e ciò che gli sta dietro. L’artista più attento cerca di ridescrivere nell’opera l’itinerario del proprio sguardo”, scrive Luigi Meneghelli nel testo introduttivo all’opera di Bernardini. Perchè è complesso parlare di visibile quando la sostanza di un intero operato poggia sull’invisibile.
Le opere di Bernardini sono più che installazioni di luce. Le geometrie di luce, prodotte dall’estensione al massimo della sua capacità di corde di fibra ottica, scardinano la prospettiva del reale abbattendo virtualmente i limiti oggettivi delle architetture sovrapponendo ad esse nuovi piani intuibili. Una geometria della mente, ma tangibile – com’è il materiale luminoso utilizzato – e attraversabile, nonostante le linee, raccordate tra loro per mezzo di punti dalla luminosità accentuata, sembrano formare, nello spazio, piani invalicabili.
Queste grandi e leggerissime “opere ambiente” dialogano con un buio non subìto ma vissuto. Nell’oscurità notturna in cui è avvolta la grande sala espositiva non si percepiscono che questi sottilissimi e ben definiti fasci di luce, dall’intensità eterogenea. Ma, nella stessa sala illuminata a giorno dalle grandi vetrate, le opere si rivelano nella loro doppia natura, svelando un esoscheletro di metallo, a sostegno e raccordo delle fibre ottiche, che diventa parte integrante del fattore installativo. Ganci di accaio, anime in ferro, piastre affastellate una sull’altra: sono le “spine dorsali” – come le chiama il loro stesso fautore – delle opere luminose, e mostrano un’estetica altrettanto forte quanto quella messa in gioco dalla luce che buca il nero denso.

  • Photo courtesy Luca Peruzzi e Atipografia
  • Photo courtesy Luca Peruzzi e Atipografia

Un’altra opera entra direttamente a contatto con lo spazio di Atipografia e, come spesso succede nei lavori di Bernardini, se ne frega dei limiti oggettivi delle superfici materiche volendo ad ogni costo oltrepassarle, per creare, attraverso quei segni disegnati con la luce, una continuità spaziale tra interno ed esterno. L’opera, composta da sottilissimi tubi di vetro riempi dal gas neon (ma privi degli elettrodi che necessiterebbero per eccitare il gas attraverso l’energia elettrica e produrre la luce “piatta” tipica del mezzo) si fa spazio attraverso i vetri delle finestre, bucandoli e stando letteralmente a metà tra il dentro e il fuori. Questa delicata piramide di linee di vetro illuminato contiene al suo interno visibile una bobina di Tesla la quale, seppure molto piccola, permette alla struttura di illuminarsi, sostituendosi alla fonte di energia elettrica tradizionale, ma producendo nei tubi intensità luminose differenti, in base alla vicinanza di questi con la bobina.
Qui un aspetto, che svela, se vogliamo, le origini della ricerca artistica di Bernardini: se da un lato l’uso del neon richiama alla mente Fontana e le sue sperimentazioni sull'”invasione” spaziale degli anni Cinquanta (che rompeva con le tradizionali concezioni di supporti e modalità artistiche a favore della tecnologia) plasmando il tubo di neon e creando un linguaggio totalmente innovativo, dall’altro lato non possiamo non ricondurre l’aspetto di “ambiente”, che assume nel suo complesso l’apparato di opere nello spazio, all’attività di ricerca della Op Art, del Gruppo T e delle varianti prospettiche messe in campo, attraverso l’applicazione degli studi di ottica e cinetica, negli ambienti all’interno dei quali lo spettatore “viveva” l’opera e, gradualmente, cominciava ad interagire con essa, modificandola. Così qui, di fronte ai “neon ritoccati” di Bernardini mi trovo ad imitare il gesto dell’artista al mio fianco che, usando la mano come conduttore di elettricità, attiva i neon spenti avvicinandosi ad essi.
La rifrazione sui vetri bui della piramide imbroglia il nostro occhio, che non riesce più a percepire cosa è dentro e cos’è fuori, quali le linee reali e quali le luci riflesse, in un continuo gioco di rimandi e cambi di visione…
La mostra rimarrà esposta ad Atipografia fino al 14 marzo. Un consiglio? Andateci non appena sarà sceso il sole…

Coordinate Invisibili di Carlo Bernardini.
Dal 17 gennaio al 14 marzo 2015.
Dal mercoledì al venerdì dalle 15 alle 19.
Sabato e domenica dalle 15 alle 20.
Atipografia Via Campo Marzio 26, Arzignano (VI)

Photo courtesy Luca Peruzzi e Atipografia

 

Facebook Twitter Pinterest

COLLA E PUDENDA

Annamaria, rivolgendosi al suo compagno, ci chiama “le bambine”, anche se io e lei abbiamo poco meno di sei anni di differenza. L’artista passa i mesi estivi in una casa con “cinque finestre ad est”, in contrà Perpruneri (la traslitterazione dal tedesco di Bär Brunnen, Fontana dell’Orso) a Folgaria, il “luogo natio” di Annamaria, per il quale prova un attaccamento commovente), anche se la casa in cui siamo ora non è la stessa nella quale ha passato l’infanzia, quando studiava e lavorava nella bottega di alimentari di famiglia, “Targher”.
Appena le è stato possibile, ai tempi della scuola, Annamaria è “fuggita” da Folgaria (dove ora torna forse alla ricerca di quelle radici che sente nelle gambe) col pretesto di studiare. L’Accademia di Belle Arti Annamaria l’ha frequentata a Verona, da allora cominciando a dedicarsi all’arte in maniera sistematica. 

Per alcuni giorni di agosto ha concesso, a me e Cristina, di dormire nella stanza dove solitamente dipinge, facendoci scegliere tra una pila di materassi che sembravano usciti da una soffitta d’altri tempi.

Se dovessi paragonare Annamaria ad un elemento naturale lo farei con un torrente di montagna. In alcuni periodi dell’anno può assumere le sembianze di un rivolo sottile, freddissimo, che scorre lungo le pietre compiendo piccoli salti, bagnando il muschio e le erbe che crescono nei periodi di secca seguendo il corso dell’acqua. Altre volte, sciolte le nevi più in alto, muta d’aspetto e si gonfia d’un’acqua carica di fretta nel giungere a valle, rumorosa, scrosciante, imprevedibile, che travolge senza pietà teneri ramoscelli cresciuti lungo il letto e foglie secche rimaste immobili per mesi.
Ecco, Annamaria è un po’ questo: una donna a tratti silenziosa e cocciuta, sguardo fermo e bacchette alle mani, pronta ad inerpicarsi quasi correndo lungo i versanti delle sue montagne; a tratti invece ferma come una bonaccia, e loquace al punto tale da sconvolgere il più paziente degli ascoltatori.
Si racconta Annamaria, e questa è la cosa che più mi piace di lei (io non sopporto fare molte domande, preferisco pormi in una condizione dedita all’ascolto, piuttosto che sfiancare il mio interlocutore di interrogativi. E’ il tempo buono che si trascorre assieme ad una persona che ce la fa conoscere, non la quantità di risposte che questa riesce a darci). Lo fa a parole, ma soprattutto – per chi sa o vuole leggere tra le righe – attraverso il suo personale modo di fare arte.
Durante il nostro breve soggiorno estivo in Trentino era in corso, nella sala espositiva al piano terra del Municipio di Folgaria, la mostra che raccoglieva le ultime fatiche di Annamaria, e che io e Cristina non mancammo di vedere.
Muuuu. Un titolo onomatopeico per l’esposizione, il muggito di bestie grandi e mansuete, testarde, e talvolta imprevedibili, capaci di mutare improvvisamente stato, da calme a violente in un attimo.
Le elaborazioni di Annamaria, e forse lei stessa, assomigliano al carattere degli animali ritratti. Passa da disegni a carboncino e sanguigna – di piccolo formato, pacati, dai tratti nervosi ma fermi, pochi, essenziali, una sintesi che rassicura – a composizioni che paiono vortici, esplosioni, nelle quali il collage diventa il senso del tutto, il mezzo che coincide con il fine.
La prima volta che vidi le Mucche di Annamaria fu l’estate scorsa nella sua casa di Vicenza. Ci trovammo a cena sul suo terrazzo, con il pretesto di vedere i lavori, e farmi aggiornare dei suoi progetti artistici. Alla parete della sala, che lei ha ribattezzato suo studio levando di torno mobili scuri e ingombranti, era appesa una delle tele che dovevano comparire in mostra: una Mucca felice, che si regge sulle zampe posteriori, le anteriori sollevate in aria: tra i segni dipinti e le figure incollate in un vortice di colori e forme, ogni singola mammella appariva come si stesse guardando all’interno di un frullatore in azione. Nel collage rossetti, occhi dipinti, scatoline per il make up, parti di braccialetti e monili di ogni colore e foggia fluttuano in questi cerchi lanciati in aria e ricomposti lungo il profilo della bestia.
I lavori più recenti, le piccole Mucche realizzate durante il soggiorno montano sono di tutt’altro sapore. Segni piccoli sulla sommità del foglio ad indicare le cime degli alberi che sovrastano pendii rocciosi; a valle quasi nulla, le vacche al pascolo poggiano le loro zampe solide sul foglio bianco. La quiete dopo la tempesta…

  • Mucca in posa, 2013
  • Mucca che mostra la lingua, 2013

Per curare alcune patologie della psiche umana l’uso degli animali ha un valore duplice: da un lato contribuisce a stimolare l’interesse e il rispetto, la cura e l’affetto, verso un’altra creatura, che ha bisogno di essere accudita e nutrita; dall’altro lato porta, attraverso il pretesto dell’accudire, ad avvicinarsi alla parte più selvaggia dell’essere umano, la sua parte più istintuale, quella viscerale, profonda e priva dei legami con la parte razionale, intellettiva.
Annamaria è selvatica, dando al termine la più naturalistica delle accezioni. E dalle sue opere traspare questa sua “selvatichezza”, ricondotta talvolta a una forzata cattività, creando animali dai tratti, o le movenze, antropomorfi. Galli che che vestono abiti di voile e pizzo, capre con agli zoccoli scarpe dal tacco alto, e mucche le cui ‘pudenda’ esposte ai quattro venti sono ri-composte (grazie alla tecnica del collage) da pezzi di cosmesi femminile, intagliati con meticolosa dovizia direttamente dalle pagine patinate delle riviste che tiene sparse per lo studio.
Lei stessa, in un lucidissimo post delle 6 di stamattina, con il sarcasmo che la contraddistingue, ha scritto: “Potrei continuare a fare Mucche tutta la vita. Tutte le volte, senza delusione, è lo svelamento nuovo e inaspettato di un carattere, di una ben definita personalità. Questa strana, ma reale compagnia che mi fanno potrebbe, un giorno, costituire materiale innovativo (o consolidato) per la letteratura psichiatrica.”

 

Facebook Twitter Pinterest

Sporcarsi le mani

Davanti alla bocca spalancata del forno stavano due ragazzi, a scrutare con una certa apprensione il caldo crepitio che accendeva di rosso le guance più di quanto non stesse facendo il vino versato nei loro bicchieri. Sotto allo specchio in ingresso, quello con l’enorme cornice in algida ceramica smaltata, stava accatastato qualche buon quintale di ciocchi di legna grossi come cosce, pronto per essere arso. Dovevano assicurare il carico per le quattordici ore successive. Nonostante i turni pronti da giorni, nessuno sarebbe stato in grado di andarsene prima che la cottura fosse stata ultimata, magnetizzati dal fascino della fornace e dalla sospensione greve che crea l’attesa di un evento…

Arrivando a Nove in auto da Vicenza, contavo sulla punta delle dita da quanti anni non andavo alla Fornace Stringa. Forse dieci, forse di più, che importa. Al tempo frequentavo ancora l’università. Nadir Stringa, il proprietario della fornace, era fratello di uno dei miei professori di corso, il buon Nico, detentore della cattedra di Arte Contemporanea in quel di Ca’ Foscari.
La produzione ceramica, all’interno della fornace, era interrotta già da anni, ma i proprietari avevano avuto la saggezza e la cura di preservare gli spazi e i manufatti dall’incuria e l’abbandono mantenendo, per quanto possibile, inalterata la storia di uno dei più importanti centri di produzione ceramica nazionale, se non addirittura internazionale. La prima volta che andai, ricordo, mi rimase impresso il fatto che stessero cercando, per mezzo mondo, chi potesse sistemare la ruota idraulica, composta da tavole lignee ormai rose risalenti a qualche secolo prima. Un pezzo di storia nella storia.

Ogni anno la cittadina, che poco dista dalla più conosciuta Bassano, apre i portoni delle fabbriche dove ancora si produce ceramica, salvaguardando la tradizione decorativa e la manualità che negli ultimi decenni la produzione industriale è stata in grado di spazzare via per la gran parte. A fianco di chi – gli anziani novesi – non ha mai smesso di esercitare una pratica tramandata di padre in figlio, da qualche centinaio d’anni (uomini che hanno passato una vita chini sui piatti, o donne dalle dita piccole e affusolate in grado di assemblare con minuziosa precisione piccolissimi elementi di terra molle) esiste una piccola frangia di “novesi di ritorno”. Uomini, una manciata, tra i trenta e i quarant’anni, cresciuti tra le mensole di legno sulla quale riposavano le terrecotte uscite dai forni, tra gli odori delle vernici usate per le decalcomanie – le stesse da secoli – e i rigoli d’acqua e terra che colavano dalle griglie di legno, che avevano tutto l’aspetto di scale a pioli messe a riposo, irrorando i pavimenti delle manifatture come campi assetati.
Made in Nove, così si è ribattezzato questo gruppo. Come fosse un marchio di qualità, una garanzia sottopelle, un sangue blu screziato di argilla. Ragazzacci dell’arte che, prima di tornare alle origini per calarle nel contemporaneo, si sono allontanati da queste cercando la loro personale strada.

Facebook Twitter Pinterest