Posts in Category: RACCONTI D’ARTE

Sporcarsi le mani

Davanti alla bocca spalancata del forno stavano due ragazzi, a scrutare con una certa apprensione il caldo crepitio che accendeva di rosso le guance più di quanto non stesse facendo il vino versato nei loro bicchieri. Sotto allo specchio in ingresso, quello con l’enorme cornice in algida ceramica smaltata, stava accatastato qualche buon quintale di ciocchi di legna grossi come cosce, pronto per essere arso. Dovevano assicurare il carico per le quattordici ore successive. Nonostante i turni pronti da giorni, nessuno sarebbe stato in grado di andarsene prima che la cottura fosse stata ultimata, magnetizzati dal fascino della fornace e dalla sospensione greve che crea l’attesa di un evento…

Arrivando a Nove in auto da Vicenza, contavo sulla punta delle dita da quanti anni non andavo alla Fornace Stringa. Forse dieci, forse di più, che importa. Al tempo frequentavo ancora l’università. Nadir Stringa, il proprietario della fornace, era fratello di uno dei miei professori di corso, il buon Nico, detentore della cattedra di Arte Contemporanea in quel di Ca’ Foscari.
La produzione ceramica, all’interno della fornace, era interrotta già da anni, ma i proprietari avevano avuto la saggezza e la cura di preservare gli spazi e i manufatti dall’incuria e l’abbandono mantenendo, per quanto possibile, inalterata la storia di uno dei più importanti centri di produzione ceramica nazionale, se non addirittura internazionale. La prima volta che andai, ricordo, mi rimase impresso il fatto che stessero cercando, per mezzo mondo, chi potesse sistemare la ruota idraulica, composta da tavole lignee ormai rose risalenti a qualche secolo prima. Un pezzo di storia nella storia.

Ogni anno la cittadina, che poco dista dalla più conosciuta Bassano, apre i portoni delle fabbriche dove ancora si produce ceramica, salvaguardando la tradizione decorativa e la manualità che negli ultimi decenni la produzione industriale è stata in grado di spazzare via per la gran parte. A fianco di chi – gli anziani novesi – non ha mai smesso di esercitare una pratica tramandata di padre in figlio, da qualche centinaio d’anni (uomini che hanno passato una vita chini sui piatti, o donne dalle dita piccole e affusolate in grado di assemblare con minuziosa precisione piccolissimi elementi di terra molle) esiste una piccola frangia di “novesi di ritorno”. Uomini, una manciata, tra i trenta e i quarant’anni, cresciuti tra le mensole di legno sulla quale riposavano le terrecotte uscite dai forni, tra gli odori delle vernici usate per le decalcomanie – le stesse da secoli – e i rigoli d’acqua e terra che colavano dalle griglie di legno, che avevano tutto l’aspetto di scale a pioli messe a riposo, irrorando i pavimenti delle manifatture come campi assetati.
Made in Nove, così si è ribattezzato questo gruppo. Come fosse un marchio di qualità, una garanzia sottopelle, un sangue blu screziato di argilla. Ragazzacci dell’arte che, prima di tornare alle origini per calarle nel contemporaneo, si sono allontanati da queste cercando la loro personale strada.

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La presa ferma

Intro.
Ti ho riconosciuto nell’atrio della fiera, nell’andirivieni di gente ininterrotto che ti circondava. Tu eri al telefono e io ho pronunciato il mio nome senza emettere suono, per non disturbare la conversazione. “Petra”. Letto il labiale, hai chiuso la chiamata e ci siamo presentati come si conviene. Una stretta di mano, due baci sulle guance. Quelle cose che si fanno quando ci si vede per la prima volta, dopo essersi scambiati il giusto numero di messaggi scritti e una telefonata per capire dalla voce di che pasta si è fatti.
Accettando il mio invito venivi a parlare di te al Take Care Corner (“no, di Dolomiti Contemporanee“, mi hai risposto. “Ma io volevo che mi parlassi di te”. “Io Sono Dolomiti Contemporanee.” “Ah, allora va bene”). Ti ho guardato sederti in poltrona e, in un tempo brevissimo (chissà se te ne sei accorto) calamitare attorno a te le persone che gravitavano attorno ai tappeti, alla lampada. Tutti si sono fermati ad ascoltare ciò che ci stavi per dire.
Iniziamo.

Gianluca D’Incà Levis è un fuggitivo. Un architetto fuggito dalla morsa del tecnigrafo.
Nel 2008, mentre l’Unesco stava valutando la possibilità di far rientrare nel patrimonio dell’umanità il complesso naturale dei “Monti Pallidi”, Gianluca usciva dal suo studio di architettura per entrare nel tunnel dell’arrampicata.
Io non ho idea di che significhi “arrampicare”; mi dicono sia un’esperienza totalizzante, mistica, di quelle di cui, una volta provata, non si riesca più a farne a meno. Uno spaccio di endorfina.
In un volo pindarico, guardando dal basso i corpi appesi alla roccia, cerco un’analogia tra questa pratica a me così lontana e il tango che conosco. Vedo in loro, come nella danza, una tensione del corpo che è dettata dalla mente, la quale riferisce ai muscoli che fare attraverso parole silenziose; l’incedere sicuro, un passo alla volta, è scandito da un ritmo fatto dai suoni del respiro. Le spalle rilassate, i polsi morbidi, i nervi tesi, la presa ferma: si seduce la roccia per conoscerla. La corda doppia fa una ronda verticale. Le cortine lassù, anziché esser musicali, sono di nebbia.
Accosto l’immagine della presa nel tango (le mani unite dei due ballerini nell’abbraccio)  a quella nell’arrampicata, quando le falangi stringono la roccia sfidando le leggi di gravità. E trovo in Walter Benjamin la riprova che le coincidenze esistono (se le si vogliono trovare): “La presa ferma, apparentemente brutale, fa parte dell’immagine della salvezza.”

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Chirurgo della luce

Al momento di andarsene, Andrea Rosset, primo ospite del Take Care Corner ha detto che questa chiacchierata di oltre un’ora e mezza avremmo potuto farla a casa. Ma, assieme a me, ha convenuto che non sarebbe stato lo stesso. Stavolta non gli è bastato, come fa di solito, scendere due rampe di scale, aprire il portoncino d’ingresso, uscire in strada, fare circa sette passi sotto la linea delle mie finestre e suonare il campanello, per venirmi a raccontare del suo lavoro artistico. La scelta stavolta ricadeva nell’accettare un invito che prevedeva un coinvolgimento diverso. Si trattava, ossia, di attivare un discorso “ravvicinato” sull’arte (gli interlocutori eravamo noi due) ma potenzialmente sotto gli occhi di tutti. L’idea del Take Care Corner è stata quella di traslare in un luogo affollato, con un pubblico vario e di passaggio com’è quello di una fiera, una modalità di interazione che mantenesse idealmente una dimensione quasi intima, funzionale all’ascolto. Prendendomi cura dell’artista (in questo caso prestando ascolto, attenzione, alle parole dell’artista sul suo lavoro) mi prendo cura dell’arte.

“Chi è, la donna della foto?”. E che importanza ha? La prima domanda è mia, la seconda è il condensato della risposta di Andrea. Per parlare del ventennale rapporto con la fotografia di Andrea ho scelto di cominciare lasciando fare a lui stesso delle considerazioni su un suo progetto in particolare, Restrain. E per farlo ha portato con sé una piccola stampa, trenta centimetri per quaranta nella quale è rappresentato il volto di una donna piegato leggermente da un lato, lo sguardo basso sembra seguire il flusso dei pensieri; le spalle che appaiono nella foto sono nude, i capelli escono da una macchia d’oscurità, in cui tutta la sagoma è immersa. E’ difficile, guardando un ritratto, non porsi interrogativi sull’identità del soggetto, come se un’informazione biografica consegnasse un valore aggiuntivo al fine della contemplazione dell’opera. Ma non è questo il punto, non per Andrea.
La ricerca in merito alla fotografia contemporanea di Andrea si compie sul livello del linguaggio: attraverso un lavoro lungo e meticoloso, da tempo lui opera per trovare una modalità esecutiva che conceda al fotografo di allontanarsi sempre più con migliori esiti, dal “predominio dell’occhio”. Sembra un paradosso, eppure nel distaccarsi dall’operazione meccanica che il mezzo implica egli ha la possibilità di dedicarsi con maggiore dedizione alla “ricerca della fotografia”.

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THE ARMCHAIR EXPERIENCE

Non lo so se il Take Care Corner avrà un seguito. Alcuni, subito dopo la conclusione della breve ma intesa esperienza veronese, mi hanno suggerito di riproporre il Corner altrove, magari facendo spuntare poltrona e lampada in luoghi inaspettati, o in qualche piazza magari, come quel pianista che si porta dietro un pianoforte a coda sgangherato su rotelle e, infilati i guanti tagliati che lasciano le dita scoperte, sfida il rigore delle giornate più fredde per suonare qualcosa di drammaticamente sdolcinato…Ecco, magari non così!

Artribune, raccontando delle esperienze degli Independents (di cui anche Olivares cut faceva parte) ha parlato di “poltrona psicanalitica”, citando il Corner…ci sarà un fondo di verità?
Ad ogni modo, psicanalisi o no, il Take Care Corner ad ArtVerona è stato una trasposizione “in esterna” di una modalità per me indispensabile per arrivare a comprendere l’arte, che solitamente compio “indoor”: prendermi cura di un artista (cosa che spesso coincide con il “prestare ascolto”) per prendermi cura dell’arte. 

Ho ascoltato per ore, giorni. E non ho voluto ci fosse nessuna registrazione audio, di quelle che non erano interviste ma conversazioni. Mi sono imbevuta di parole come una spugna con l’acqua, e ora, un po’ alla volta, dopo aver lasciato sedimentare l’esperienza, spremerò parole sulla carta, basandomi sul ricordo che ho e sugli appunti presi in pagine fitte, per scrivere quelli che non saranno nient’altro che Racconti d’arte.

Quindi comincio: il Chirurgo della luce sarà il primo, e poi via di seguito. Buona lettura.

  • Marco Dal Maso
  • Paolo Polloniato
  • Gianluca D'Incà Levis
  • Take Care Corner
  • Andrea Rosset

(Ringrazio Luigi De Frenza per le numerose foto scattate al Corner che mi permette di condividere)

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Il mio vero cognome è Cason. Olivares l’ho avuto in eredità “dal mio ex marito, narcotrafficante colombiano che, andandosene, mi ha lasciato il nome, una cicatrice e un figlio”. Scherzo.
Ma quel -on finale, è vero. E rivela le mie origini. I miei nonni paterni si trasferirono nel vicentino negli anni Quaranta del secolo scorso emigrando dal Bellunese, dalla vallata di Forno di Zoldo, per la precisione, che è a un tiro di schioppo da Longarone, la città che vive all’ombra della diga del Vajont.

Sfido chiunque, nato dopo il 1963, che sentendo parlare di Vajont non abbia pensato alla tragedia omonima. Dino Buzzati, che dai luoghi del disastro proveniva, nell’articolo apparso sul Corriere della Sera l’11 ottobre 1963 – due giorni dopo che un’enorme porzione del Monte Toc si staccasse dalla montagna per finire ad una velocità di 100 km orari dentro il lago sottostante, l’acqua scavalcasse la diga ad arco (al tempo la più alta del mondo) “come un immenso dorso di balena” e precipitasse “a picco giù nel burrone, avventurandosi, terrificante bolide di schiuma, verso i paesi addormentati” – scrisse queste parole semplici, ma piene di disperazione.
“Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi.”
2500 morti in un attimo. Dicono che alcune persone furono letteralmente vaporizzate dalla furia dell’aria che scese il canalone oltre la diga anticipando di un soffio l’acqua implacabile.

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Una scritta su un muro di una casa di Erto, a pochi km dalla diga

Io questa tragedia non la conoscevo, fino ad oggi, nel dettaglio, e la diga non l’avevo ancora vista, pur essendo passata diverse volte tra il bellunese, il feltrino, l’ampezzano negli anni della mia infanzia, assieme ai miei genitori. Mio padre, accuratamente, ha evitato per anni di condurci fino alla diga; lui, che al tempo della tragedia aveva solo dodici anni, perse alcuni parenti che vivevano a Longarone. Posso solo sforzarmi d’immaginare cosa può significare, per la mente di un ragazzino com’era mio padre nel ‘63, apprendere una notizia del genere. L’angoscia fu tale che preferì non portarci mai a fare quello che lui intendeva come un “tour dell’orrore”, probabilmente intendendolo come irrispettoso nei confronti delle vittime…della diga, le vittime della fame di ricchezza dell’Uomo. La S.A.D.E., l’azienda privata per l’energia idroelettrica che fece costruire la diga, imbibì di troppa acqua una montagna dal cuore tenero, argilloso e calcareo, finché un pezzo si stancò di resistere e scese a valle.
Sul terreno franato ormai gli alberi hanno rinverdito le sommità, obnubilando la memoria di chi conosce per sentito dire ma, per non farci dimenticare del tutto, un fianco del Toc è rimasto nudo, aperto come una ferita, come se da una corpo si facesse scivolare via il lenzuolo che lo copre lasciando intravedere la pelle.

Quel corpo di monte ferito, col fianco nudo, l’ho guardato in poche ore brillare di sole prima, poi oscurarsi da nuvole minacciose e infine bagnarsi di pioggia, da un luogo che ha dello spettacolare, pregno di significato e legato in corda doppia, come si fa nelle arrampicate, con l’arte contemporanea e l’area su cui sorge. Il luogo è il Nuovo Spazio di Casso (quartier generale di Dolomiti Contemporanee) che ha riportato in vita la scuola elementare del paese, facendola diventare un contenitore d’arte che dialoga con il territorio (le Dolomiti, patrimonio dell’umanità – siamo a cavallo tra il Pordenonese e il Bellunese), e nel quale spazio gli artisti interagiscono con gli abitanti, creando un’apertura con l’esterno come non avveniva da decenni, ma attraverso una modalità completamente nuova. Il rispettoso restauro della scuola ha mantenuto la facciata com’era rimasta dal ‘63 – crivellata dai colpi, pietre come proiettili che l’onda mostruosa del lago salito da centinaia di metri più in basso le aveva schiantato addosso, arrivando a scoperchiarla del tetto come una pentola a pressione chiusa male – creando una nuova corazza per l’edificio, ma dall’interno. Tra la nuova e la vecchia pelle un’intercapedine vuota concede una sospensione temporale tra il passato e il presente.

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