La presa ferma

Intro.
Ti ho riconosciuto nell’atrio della fiera, nell’andirivieni di gente ininterrotto che ti circondava. Tu eri al telefono e io ho pronunciato il mio nome senza emettere suono, per non disturbare la conversazione. “Petra”. Letto il labiale, hai chiuso la chiamata e ci siamo presentati come si conviene. Una stretta di mano, due baci sulle guance. Quelle cose che si fanno quando ci si vede per la prima volta, dopo essersi scambiati il giusto numero di messaggi scritti e una telefonata per capire dalla voce di che pasta si è fatti.
Accettando il mio invito venivi a parlare di te al Take Care Corner (“no, di Dolomiti Contemporanee“, mi hai risposto. “Ma io volevo che mi parlassi di te”. “Io Sono Dolomiti Contemporanee.” “Ah, allora va bene”). Ti ho guardato sederti in poltrona e, in un tempo brevissimo (chissà se te ne sei accorto) calamitare attorno a te le persone che gravitavano attorno ai tappeti, alla lampada. Tutti si sono fermati ad ascoltare ciò che ci stavi per dire.
Iniziamo.

Gianluca D’Incà Levis è un fuggitivo. Un architetto fuggito dalla morsa del tecnigrafo.
Nel 2008, mentre l’Unesco stava valutando la possibilità di far rientrare nel patrimonio dell’umanità il complesso naturale dei “Monti Pallidi”, Gianluca usciva dal suo studio di architettura per entrare nel tunnel dell’arrampicata.
Io non ho idea di che significhi “arrampicare”; mi dicono sia un’esperienza totalizzante, mistica, di quelle di cui, una volta provata, non si riesca più a farne a meno. Uno spaccio di endorfina.
In un volo pindarico, guardando dal basso i corpi appesi alla roccia, cerco un’analogia tra questa pratica a me così lontana e il tango che conosco. Vedo in loro, come nella danza, una tensione del corpo che è dettata dalla mente, la quale riferisce ai muscoli che fare attraverso parole silenziose; l’incedere sicuro, un passo alla volta, è scandito da un ritmo fatto dai suoni del respiro. Le spalle rilassate, i polsi morbidi, i nervi tesi, la presa ferma: si seduce la roccia per conoscerla. La corda doppia fa una ronda verticale. Le cortine lassù, anziché esser musicali, sono di nebbia.
Accosto l’immagine della presa nel tango (le mani unite dei due ballerini nell’abbraccio)  a quella nell’arrampicata, quando le falangi stringono la roccia sfidando le leggi di gravità. E trovo in Walter Benjamin la riprova che le coincidenze esistono (se le si vogliono trovare): “La presa ferma, apparentemente brutale, fa parte dell’immagine della salvezza.”

Passati sei mesi, il rapporto con la montagna, come fosse stata una storia d’amore clandestina, chiese una motivazione più forte per sopravvivere. E così l’approccio da tattile diventò concettuale, il metodo da fisico ad estetico. Dopo aver chiuso lo studio di architettura e letto tutto quello che la letteratura aveva da dire sulla montagna (scoprendo che i grandi classici sulla montagna non esistono, e che conviene piuttosto affidarsi – ci si deve affidare – a testi tecnici, senza pretese estetiche, come ad esempio alcuni manuali di teoria dell’arrampicata – Gullich sugli altri) alla ricerca di un approccio artistico contemporaneo, che esprimesse lo zeitgeist dolomitico, Gianluca si chiese quale potesse essere il sistema per attaccarlo, questo gigante dall’iconografia stantia e odorosa di muffa.

Come si poteva portare l’arte, contemporanea, in uno scenario che si presentava ancora al mondo pieno zeppo dei suoi stessi clichè? Il paesaggio da cartolina, con la baita in legno e il bosco immacolato dietro, rimaneva, sì, nell’immaginario collettivo, ma non rispondeva assolutamente all’idea contemporanea di montagna. Montanari dalle braghe a zuava e maglioni a tricot che abbracciano le Pale di San Martino o le Tre Cime di Lavaredo forse fanno presa su anziani signori con al braccio cestini da funghi in vimini intrecciato, ma tutti gli altri, compreso il mercato dell’arte (contemporanea, ancora una volta) avrebbero faticato a salire oltre il livello del mare, se non ne fosse valsa davvero la pena.

Dal secondo dopoguerra, e soprattutto con il boom economico degli anni settanta e ottanta del Novecento, anche il paesaggio dolomitico cambiò: le fabbriche cominciarono a sorgere lungo strade poco frequentate, o a ridosso di fiumi e torrenti. Il distretto bellunese dell’occhiale conserva ancor oggi un certo prestigio, nonostante la “dannata crisi“. Ma molti siti, già negli anni novanta, o ancor più a ridosso dell’ultimo decennio, fallirono, o spostarono la produzione altrove, abbandonando enormi esoscheletri tra una vallata e l’altra e uccidendo crocevie di vita in località mai più considerate.
La rottura con il passato idealizzato e stucchevole è avvenuta nel 2011. Le sfide maggiori che Dolomiti Contemporanee dovette affrontare furono sostanzialmente due: da un lato riaprire questi siti complicati, alcuni pezzi pregevoli di archeologia industriale, ma abbandonati e fuori dalle rotte classiche che percorrono la dorsale alpina. Luoghi che giacevano in “stato di stupidità” – racconta Gianluca -, dismessi o addirittura ristrutturati ma poi privati della possibilità di funzionare nuovamente, dai potenziali enormi ma inespressi. Perchè non dare loro una nuova chance per esistere?
Dall’altro ri-attivare (o forse attivare per la prima volta) una connessione reale con i residenti di quelle aree per lungo tempo dimenticate. Non si arrivava come invasori, come nuovi proprietari, ma come catalizzatori d’interesse, di nuove opportunità.
L’arte, in entrambi i casi, è stato il motore propulsore. E Gianluca (va bene, Dolomiti Contemporanee) il deus ex machina. Ma non sarebbe servito invadere “il Caregon del padreterno”, il Pelmo, simbolo per antonomasia delle Dolomiti, con un centinaio di marmotte rosa (anche se credo che nella mente di tutti gli astanti al Corner si sia creata immediatamente l’immagine di questa distesa di esserini dalle tinte sgargianti, mollemente adagiate sulle pietre appuntite del monte, creando grande divertimento) per rendere l’idea di quanto fosse necessario lavorare su un’immagine diametralmente opposta a quella precostituita. Piuttosto bisognava convincere tutta una serie di soggetti legati alla montagna, pubblici e privati, (la regione e la provincia, le aziende e gli enti locali) della bontà del progetto e portarli a costituire quella che a tutt’oggi è una rete di partenariato fitta e dalle trame resistenti.

Il primo spazio aperto da Dolomiti Contemporanee fu l’ex polo chimico di Sass Muss a Sospirolo. In una città fantasma si ergeva un complesso industriale ex Montedison in stile liberty, immerso in una natura dal silenzio devastante. I padiglioni, nell’estate del 2011, ripresero vita: nel giro di quattro mesi gli appartamenti per le residenze ospitarono una ventina di artisti e un centinaio d’altre persone, due cicli di mostre negli spazi espositivi ricavati ad hoc, e in totale oltre 10.000 visitatori. Curatori coraggiosi si lanciarono a capofitto nel progetto proposto da Dolomiti Contemporanee e invitarono a Sass Muss gli artisti che vennero accolti in un luogo che aveva dello straordinario. Il lavoro che si stava facendo non era di slegare i soggetti coinvolti dal contesto, tutt’altro. La sinergia e la commistione tra le parti, tra l’industria e la natura, tra gli ospiti e gli ospitati, tra gli autoctoni e gli artisti chiassosi, fu indispensabile alla riuscita dell’esperimento. Primo traguardo portato a casa.

E allora, perché non ripeterlo? La strategia mira a rafforzare la visibilità mediatica, lavorando sul concept, ma non perdendo mai di vista il confronto diretto, costante, con coloro i quali stavano, pian piano, capendo l’importanza di questo cambiamento. Solo così si riesce ad ottenere il loro appoggio, un passo alla volta, senza fretta.
Un lavoro fatto bene. I soldi faticano sempre ad arrivare, ma la fiducia che si viene ad instaurare tra le realtà coinvolte – le più diverse – porta a scambiare monete d’altro tipo: anziché spostare capitali, per quel che si può, si spostano professionalità, manodopera, operai, lavorazioni. I partner sono tecnici, logistici. Ognuno ci mette il proprio contributo, la lista dei nomi dei soggetti coinvolti si allunga. I volontari aumentano. E si apre il secondo spazio: Taibon. Un’unica piastra di 3000 metriquadri divisa in 10 spazi. Negli appartamenti, anche qui, gli artisti ci vivono, e realizzano opere che andranno a costituire, nel corso del 2012, ben 16 mostre.

Il livello qualitativo dei progetti proposti da Dolomiti Contemporanee è elevato. Chi milita nelle fila di DC è volontario, ma l’esperienza fatta all’interno di una piattaforma così forte è un lasciapassare per ambiti lavorativi remunerati in altre realtà.
Il riscontro del pubblico è impressionante. Dolomiti Contemporanee muove numeri importanti di visitatori. Nei mesi estivi, a percorrere queste rotte fuori mano, sono migliaia di spettatori, avidi di vedere la montagna (e l’arte) come non l’avevano vista prima. La reazione della comunità locale è incoraggiante, sembra voler dimostrare che si sta andando nella giusta direzione: se prima vedeva la masnada di artisti come una comunità di alieni, poi li accetta, li cerca. Dopo quattro mesi di attività, nel 2012, i partner di Dolomiti Contemporanee diventano un centinaio. Quattro di loro mettono radici, trasferendo le proprie attività in queste zone riattivate.

Il Corner è attento a ciò che Gianluca racconta. Alcuni degli astanti fanno domande: non c’è il rischio che avvenga della speculazione sugli spazi così difficilmente strappati all’oblio e ora diventati invitanti bocconi? Gianluca sostiene di no. E’ la stessa gente della provincia che torna ad essere gelosamente attaccata ai propri territori e, una volta terminate le esposizioni, tende a riappropriarsi degli spazi, non più cadaverici, ma pulsanti di nuova linfa.
Il punto di svolta avviene quando la stessa gente del posto arriva a chiedere l’intervento di DC: il sindaco di Erto e Casso chiede che si dia, finalmente, una nuova immagine a luoghi che sono rimasti, per cinquant’anni, “in bianco e nero”, come le foto sui giornali il giorno dopo la tragedia del Vajont, e da quella non si sono più ripresi.
Erto e Casso sono stanchi di essere ricordati come luoghi di morte. DC si chiede, con estrema onestà, se accettare o meno di dare vita ad un progetto che poteva rischiare di scivolare nell’ambiguità che spesso avvolge luoghi gonfi di memoria come questo. Una sfida. Dalla passerella del Nuovo Spazio di Casso non si può evitare di guardare in faccia la morte, personificata dal Toc, ma anche se tutto, per anni, si è fermato, non è detto affatto che le cose non possano essere modificate. E allora, anziché rifuggire dal pericolo di fare della retorica, DC ha basato il proprio quartier generale nella scuola elementare abbandonata, primo edificio alle porte di Casso.

Gianluca tira le fila dell’esperienza ad un anno di distanza: il lavoro da fare è ancora immane, ma anche per Casso i risultati sono incoraggianti. Settanta artisti hanno vissuto per tutta l’estate in residenza a Casso, nella vecchia canonica, e la vicinanza con chi ancora risiede in paese (la popolazione è ridotta all’osso) è stata feconda, con un primo tentativo di coinvolgimento attivo anche in alcuni progetti artistici.
“Fare arte è come arrampicare”. Anche andare a Casso è come arrampicare, però. Credo sia stata una soddisfazione sfatare l’idea che ciò che sta in periferia non è degno di essere visto. Ciò che è difficile da raggiungere fa compiere uno sforzo maggiore per essere ottenuto, e ciò che è fuori rotta, geograficamente scomodo, acquista un valore aggiunto quando viene trovato, vissuto.
Il Castello di Andraz riaperto dopo decenni, i rifugi abbandonati dipinti all’esterno (e poi ripopolati anche all’interno), nuove fabbriche che si vogliono “riconquistare”. Ma non solo: le collaborazioni con le istituzioni museali (Trento, Trieste…), con le università; le call per concorsi internazionali in previsione del nuovo anno. Dolomiti Contemporanee procede, determinata, nella sua scalata verticale. La presa, inutile dirlo, ferma.

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 (Photo courtesy of Luigi De Frenza, Giovanni Melillo Kostner)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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