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LA SOTTILE LINEA TRA IL REALE E L’IRREALE. Da Carver a Hanson

Facciamo che parliamo un po’ della concatenazione degli eventi. E’ tutta la vita che trascorre così, no? Solo che a volte non ce ne rendiamo conto, non facciamo molto caso a quanto certe faccende siano legate tra loro. Ad essere onesta non ho ben capito se in maniera del tutto casuale, o se invece sono io – a posteriori – a unire nella mia mappa mentale tutti quei puntini che corrispondono ai singoli eventi e trovarvi infine un disegno leggibile che assomiglia vagamente alla mia vita.

Comunque, esce Birdman al cinema, qualche mese fa. Al diavolo il grande schermo, me lo sono guardato tutto d’un fiato sul divano di casa. Il monitor del computer certo non rendeva giustizia ai voli pindarici dell’uomo uccello, ma sono riuscita comunque a farmi ingoiare dai dialoghi, dalle scene ben oltre la cortina del surreale, dai gesti scriteriati di un uomo al limite della sua esistenza.
Thomson che rientra in mutande nel suo teatro, dopo essere stato sbeffeggiato dalla folla, e mima la pistola che non ha puntando addosso alla sua ex moglie e a quel belloccio di Norton, a letto assieme sul palcoscenico, le nude dita messe a elle, non riesco a togliermelo dalla mente. Per me fu quello il climax del film. La tragedia nella tragedia. Una tragedia fatta a ruota, che continua a girare e a tornare su se stessa, magari in modo apparentemente diverso, ma in realtà è sempre la stessa, che si ripresenta.

Ma perché sto parlando di Birdman? Perché è l’inizio del mio racconto su Duane Hanson.
Dunque, stavo tornando da Milano, qualche settimana fa, e in attesa del treno – fuori un diluvio universale – mi infilo dentro la Feltrinelli. La stazione era piena di migranti in un modo imbarazzante, poveri cristi pensavo, a guardarli mentre attendono che succeda qualcosa, qualsiasi cosa che li porti via da lì. Era da poco terminato lo sciopero dei trasporti, e per quanto sia impressionantemente alta la Stazione Centrale mi pareva di soffocare, tanta era la gente che si accalcava tra i binari, di fronte ai negozi, nel sotterraneo di fronte la biglietteria, all’ingresso della metropolitana. Non ho capito se è stata agorafobia, la mia, o semplice paura nel sentirmi appiccicata addosso tutta quell’aria carica di tensione.
La Feltrinelli, quindi. In realtà ero alla ricerca di un altro libro (che ho trovato e divorato in tempo record, “Nel mondo a venire”, di Ben Lerner, ma questa è un’altra storia), quando mi è caduto l’occhio su un volume che aveva due dettagli riconoscibili. Il primo, ancor prima del titolo fu il disegno in copertina, un’illustrazione che sapevo da chi fosse stata eseguita: Shout, al secolo Alessandro Gottardo. Solo qualche mese prima avevo scritto una recensione sulla sua mostra qui a Vicenza, e certamente le illustrazioni per i racconti di Carver erano tra i lavori che mi avevano impressionato di più. Queste figure indolenti, silenziose, e le ambientazioni rese con pochi, sintetici tratti, o campiture di colore piattissimo, lasciavano quel misto di tristezza e incompresione, nello sguardo dello spettatore, che rapiva, inevitabilmente. La tragedia (compiuta o meno che sia) ha un odore irresistibile, un fascino irresistibile.
In secondo luogo il titolo: Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. Touché. Ecco, ora si collegano i puntini: Shout, Birdman e l’odore della disperazione. Lo prendo.

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Raymond Carver. In quarta di copertina trovo la biografia, bizzarra: “figlio di un operaio di segheria e di una cameriera. Nato il, morto il”. Fine.
Com’è possibile che non ci sia scritto dove questo genio abbia imparato a scrivere in un modo così meravigliosamente disperato? Beh, è stata la moglie, a convincerlo a frequentare quel corso di scrittura, di approfondire all’università quella che fino a quel momento era stata più che una passione un’urgenza, un bisogno, una necessità.
Carver lo scavatore. Generazioni di scrittori in erba invidiano il suo stile, riconoscibile, insuperabile, gonfio di imitatori. Non è asciutto, nè secco: è l’apoteosi della sintesi, il suo tratto. Non una parola di più di quelle che servono, per inquadrare una scena, per farci capire chi è il derelitto protagonista del racconto. Eppure descrizioni minute definiscono davanti ai nostri occhi, frase dopo frase, le case in cui queste coppie allo sbando vivono, ti sembra di sentirlo nelle narici l’odore di quel divano ammuffito, dove un giovane uomo sta gettando la sua esistenza dopo essere stato licenziato. Lo senti tintinnare il ghiaccio dentro ai bicchieri che i personaggi riempiono di gin e tonica e se li portano alle labbra ogni mezzo paragrafo. Tutto l’alcol del mondo per tirare avanti certe storie amare, e credo sia stata quella lattina di birra stretta nella mano del giardiniere, per prima, a farmi ricordare di Carver e dei suoi racconti cortissimi, appena oltre l’ingresso della Serpentine Sackler Gallery, a Londra.
Ci finisco dentro di domenica mattina, nella galleria, quasi a ora di pranzo. Hyde Park è uno spettacolo, sotto un sole scintillante di fine luglio che fa brillare lo specchio d’acqua gremito di piccole barchette a remi. I sentieri che costeggiano il lago sono attraversati da un pacifico andirivieni di gente, e le sdraio da mare – manca la scritta BIBIONE sopra le righe verticali! – in quella giornata assolata non cozzano poi tanto con il clima non esattamente estivo del resto del mio soggiorno londinese.

Ci metto un attimo prima di capire quello che sto vedendo, oltrepassata la porta a vetri del palazzetto a un piano. Di fianco alla porta d’ingresso un cowboy è posato alla parete, il cappello calato sugli occhi. Di fronte a me a sinistra un uomo grasso, sulla sessantina, seduto su una tagliaerba spenta, un cappello da baseball gli copre la pelata. Ha lo sguardo perso di fronte a sé, e nella mano stringe una lattina di birra, un po’ deformata dalla stretta vigorosa.
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Sulla destra una signora in là con gli anni indossa una t-shirt rosa a righe che urla anni ottanta, e pantaloncini corti e larghi: è seduta su una seggiola e tiene un piede appoggiato all’altro ginocchio, così da avere l’appoggio per la rivista che sta leggendo. Attorno a lei ci sono pile di vecchi libri e quadri da rigattiere.
Poco più in là sta una donna giovane, dal viso grazioso, vestita con degli abiti decisamente stretti per un corpo così formoso. Tiene il peso tutto su una gamba, e guarda fissa verso l’ingresso della galleria. Ma d’un tratto si allontana da questo trittico perfetto, rompendo l’equilibrio da sacra e muta conversazione espositiva, per indicare il bagno ad una delle visitatrici.
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In mostra tutto il paradosso di Duane Hanson, guardasala paffuta compresa. Un artista che si è applicato fino allo sfinimento per confondere il reale con l’irreale, per mischiare le carte sul tavolo e rimettere una copia della realtà di fronte ai nostri occhi in tutta la sua assoluta inconsistenza. Ancor più dei caduti di guerra o le vittime di stragi dei suoi lavori passati, questa retrospettiva sull'”umanità media”, possiamo chiamarla così, in resina poliestere e fibra di vetro, è incredibilmente scioccante. Ma non sono gli abiti consunti, le rughe della pelle o i capelli veri posticci sopra le teste di queste sculture così credibili, ad essere toccanti: è il loro essere così smaccatamente comuni nei ruoli che ricoprono – il giardiniere, l’imbianchino, il magazziniere, la donna delle pulizie, i manovali -, quasi banali nei loro tratti fisiognomici – assomigliano a qualcuno ma non ritraggono realmente nessuno – che ci lascia perplessi e ammutoliti di fronte a loro. Ed ecco instaurarsi un dialogo assurdo, silenzioso, tra queste figure e noi che vaghiamo come degli spettri per le stanze della galleria, parandoci davanti ad ognuno di loro, cercando un’interazione che ci pare impossibile non avere.

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Forse stiamo cercando noi stessi, fissando i loro persi occhi vitrei. Forse vediamo la nostra stessa disperazione stando faccia a faccia con l’unemployer con la camicia a quadri che tiene tra le mani un cartello che dice “lavoro per cibo”. Sono lo specchio di noi stessi, quei lavoratori pensierosi, i bambini a giocare su un tappeto, uomini e donne seduti a un tavolino, uno di fronte all’altro, a stringere nelle mani una bottiglia di birra piuttosto che un bicchiere di gin.
Eccole qui, le coppie di cui tante volte ho letto nei racconti di Carver. Individui prossimi alla separazione, prossimi al suicidio, prossimi a compiere una follia nella speranza di una vita migliore. Ma che intanto stanno lì, muti come pesci, a fissare il vuoto che li accompagna, oltrepassando qualunque cosa o chiunque stia davanti alle loro piccole, insignificanti, trascurabili esistenze.
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RITRATTO DI SIGNORA

Testo al progetto fotografico di Andrea Garzotto “Ritratto di Signora”

 RITRATTO DI SIGNORA La perfezione della bellezza si compie nella misura. In “Ritratto di Signora” lo sguardo di un uomo filtra l’intimità delle donne ritratte e le consegna al nostro sguardo in una visione d’insieme, quasi senza soluzione di continuità. Ritmando la circolarità esistenziale, mischiando le carte di istanti di vita e invertendone l’ordine, Andrea Garzotto fa sì che l’equilibrio non si compia tanto nella struttura compositiva delle immagini che lo compongono, quanto nella costante tensione emotiva. Ogni ritratto va oltre il il ritratto, ogni donna non è solo l’immagine di sé, ma travalica il significato di ritratto diventando espressione di una stagione, a scandire le età. Maturità, infanzia, vecchiaia, giovinezza. Non si susseguono più con un’ostinazione cronologica, ma rompono la linearità a favore di una lettura più ampia, rispecchiando le complessità del femminile. Attraverso il ritornare, il perpetrarsi di gesti, riti, movenze, segni, che smettono di appartenere ad un singolo momento, ad un singolo individuo, per diventare parte integrante del Tutto. Dodici ritratti a formare un quadro completo. I toni di questi “racconti a un’immagine” sono quelli delicati e introspettivi; un approccio intimo e paziente avvicina l’autore alle donne ritratte, sì da entrare silenziosamente in un universo privato, che si lascia scoprire svelando per ognuna una personale inclinazione. Ogni Donna prende possesso dello spazio in cui è ritratta, che gli è specchio. Instaura a proprio modo il rapporto con l’obiettivo fotografico, talvolta lasciando intuire un’insicurezza, una timidezza che la portano a schermarsi il volto con le mani; talvolta esprimendo una forza e una tenacia che traspare fin dallo sguardo. La veridicitá del ritratto, la posa non artefatta… La scelta curatoriale di presentare gli scatti in grandi dimensioni mira all’intento di rappresentare queste “donne del quotidiano” quali “nuove icone della naturalità”, o anti-icone di un femminile contemporaneo stereotipato.

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APPARIZIONI CREATIVE- BOLZANO SI PREPARA PER ROSENGARTEN FESTA

Un condensed di questo articolo è apparso su Artribune il 5.09.2014

Immaginate di avere davanti a voi il genio della lampada: sareste in grado di esprimere, in una sola volta, i vostri desideri? E altrettanto pronti nel vederveli comparire di fronte?
Rosengarten Festa quest’anno fa le veci del ‘genio’, e farà apparire, davanti agli occhi di una Bolzano curiosa, i desideri e le istanze di una cittadinanza attiva e propositiva.

Per APPARIZIONI | ERSCHEINUNGEN Franzmagazine, promotore del progetto, ha chiamato all’appello le realtà creative che gravitano nella zona ibrida (un melting pot di attività diverse, che portano avanti valori condivisi) quale è Rosengarten, chiedendo loro di dialogare con chi quell’angolo di città lo vive quotidianamente: le necessità e i (bi)sogni sono stati messi a nudo e, su quelli, una compagine di artisti e architetti invitanti alla Residency di maggio, ha lavorato a creare delle “visioni di mondi im-possibili”, a partire dai cortili nascosti dei condomini, gli spazi sfitti che ritmano le strade, i luoghi di confine che delimitano, spesso solo idealmente, una zona da un’altra.

Queste le “menti pensanti del collettivo estemporaneo: Roberto Tubaro, architetto (Bolzano), Carla Cardinaletti, artista (Bolzano), Lisa Castellani, artista (Vicenza), Luca Bertoldi, artista e ricercatore (Trento), Claudia Raisi, architetto (Milano), Campomarzio, collettivo di architettura e progettazione (Trento), Scaf.Scaf, artista (Bolzano/Albania). A guidare e indirizzare i lavori, Eleonora Odorizzi, architetto del collettivo trentino minove.

Ed ecco quindi l’apparizione: all’imbrunire, sui palazzi di Rosengarten, compariranno come in un gigantesco caleidoscopio, immagini che proporranno una rilettura di questi contesti urbani sopiti, per stimolare una riflessione critica sul “ciò che potrebbe essere”, ma ancora non è. 

Anche altre apparizioni popoleranno via Latemar che domani ospiterà la Festa dalle 18 fino alle 24: a fianco di attività satellite, 
5 I.point mostreranno al pubblico altrettanti progetti, in stato embrionale, nati proprio ascoltando le necessità del quartiere, primo fra tutti il bisogno di sopperire alla mancanza di uno spazio pubblico di aggregazione e socializzazione: allora ecco spuntare PLAYGROUND ROSENGARTEN, un parcogiochi pop-up, facile da aprire e spostare (Scaf.Scaf)BACKYARD PARTY KIT, un kit per realizzare la propria festa di condominio (D. Klotz)ROSENFINDER, un portale web che identifichi le realtà (commerciali, aziendali) del quartiere in base alle risorse che offrono (pixxelfactory)LISTENING_SOUND_LEARNING, un cinema “sensibile” di quartiere, che aggreghi udenti e non udenti (Elternverband hörgeschädigter Kinder)YOUR PUBLIC PLACE, un’azione partecipativa, da realizzare il 18 settembre, per contrastare l’assenza di panchine o sedute pubbliche, alla quale la cittadinanza è invitata (W13 designkultur).

Band e dj ritmeranno Rosengarten Festa per tutta la durata dell’evento.

Un grande in bocca al lupo a Franzmagazine, che lì so da giorni a naso in sù a scrutare le nubi, alla ricerca di un po’ di sole!

 

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Dichiarazione d’intenti

Anche se non è il primo giorno dell’anno siamo alla viglilia di settembre, e quando arriva settembre tutto ricomincia di nuovo. Pertanto questa dichiarazione d’intenti è una sorta di piccola lista dei buoni propositi, incentivo al fare più che al disfare.
Olivares cut è pronta a partire nuovamente. Obrist sostiene che sia impensabile fare il curatore se non si è continuamente in viaggio, che non significa però soltanto essere in perpetuo movimento. Il viaggio implica l’incontro, lo spostamento verso. Verso qualcuno e qualcosa.
Pertanto ecco, se dobbiamo scegliere madri e padri spirituali dei quali seguire le orme, direi che HUO in questo momento ben identifica l’uomo del quale qualunque aspirante curatore dovrebbe seguirne le tracce. Lui che ha fatto del rapporto con gli artisti un elemento fondante del suo operato, attraverso uno scambio continuo, fatto di parole (scritte, dette, segnate, registrate, ripetute) e di azioni condivise, ispira e accresce la mia voglia di intessere nuove relazioni, di chiedere, stimolare interesse, rispondere a domande e dar vita a nuovi progetti.

HUO

Per cui ecco, preparo armi e bagagli e riparto, e stavolta con una meta e un intento preciso. La meta sarà la fucina fervente di Dolomiti Contemporanee, che sta diventando un luogo accogliente dei miei sempre più frequenti pellegrinaggi artistici. Prima verso Casso a conoscere gli artisti in residenza e in seconda battuta a Borca di Cadore, direzione Ex Villaggio Eni, nuovissimo e scintillante cantiere DC. L’intento è quello di cominciare a dar vita al progetto TULPENMANIE, attraverso una serie di interviste e riflessioni sul tema che, come ormai saprete, tratterò ad ArtVerona Fiera ad ottobre ospite della sezione Independents: il valore (aggiunto) dell’arte.

Detto questo, finisco di preparare la valigia e via, si parte. Da ora in poi gli aggiornamenti si faranno sempre più numerosi e costanti.
A breve vi racconterò la storia di un cane a sei zampe che si morde la coda…

(Foto in evidenza: aulamagna della Colonia di Borca, Ex Villaggio Eni. Archivio Dolomiti Contemporanee)

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Sulle opere di Manuel Pablo Pace

Manuel Pablo Pace di spagnolo ha il nome e l’animo, l’origine morale. Spagna che non è terra natia ma è stata per lungo tempo d’adozione, e che ancora, ciclicamente, lo richiama a sé. L’Italia invece é terra di formazione prima (l’accademia di belle arti veneziana, a seguire gli studi di sociologia), di militanza poi (tra i capofila della storica rassegna bassanese Infart, sulle orme della street art dei “beautiful loser”).

Le opere che compongono la costante ricerca di Pace non sono facilmente inquadrabili, componendosi di una pittura che rifugge dall’iperrealismo alla Hopper, abbraccia i toni vintage dei manifesti pubblicitari anni Cinquanta, nelle forme ancor prima che nelle tinte, e si nutre dell’ampiezza dei segni onirici. I ritratti, fedeli, calano i soggetti in ambientazioni surreali, in un passato imprecisato, componendo scene di genere dal gap temporale spiazzante.

In “Autoportrait”, il cameo che indossa la ragazza sul divano in stile (una fanciulla già adulta) è lo stratagemma che usa Pace per ritrarre se stesso, divenedo la chiave di volta alla lettura del ritratto principale, che il titolo porta in secondo piano.

AUTO PORTRAIT -  2011

AUTO PORTRAIT – 2011

Cosí come nella scena agreste di “Angelica e Medoro”, nel quale il nome dell’opera svela il contenuto ma spiazza nella comprensione. Ambientata nelle colline bassanesi, la tela ha per protagonista una coppia di coetanei dell’artista che veste i panni da “fin de siecle” e sbilancia la contemporaneitá dei soggetti in un doppio livello temporale, quello del racconto ariostesco e quello “in costume”, tardo ottocentesco.

Pace usa la fotografia come punto di partenza nella composizione dei dipinti, o piuttosto attivatore di suggestioni, funzionale a comporre la struttura del lavoro che andrà a sviluppare in seconda battuta (olio, tempera, acrilico, acquerello, matita. Media scelti di volta in volta, in base alle necessità) sovrapponendo differenti tagli, differenti visioni.

Immagine in evidenza: “Angelica e Medoro”, olio su tela, 2012

(Testo di accompagnamento alle opere di Manuel Pablo Pace, di cui un estratto è stato pubblicato sul n.18/2014 di ArteAArte)

 

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