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LET’S FOLK

Testo al progetto fotografico di Andrea Garzotto “Let’s Folk”

Let'sFolk 011

Cos’è il folklore se non l’iconografia delle radici, la trasposizione sul piano reale di storie, leggende, tramandate a voce, spinte avanti a memoria, impregnate di una ritualitá atavica che non sentiamo di appartenere ma che, inconsciamente, perpetriamo?
La periferia è il luogo del folklore: la tradizione è decentrata, fuori dai riflettori.
Lontano dalle masse, è dentro al popolo.
Le fiere di paese ricalcano ovunque lo stesso copione, con i loro tendoni lisi, le tavolate in serie, l’odore della carne al fuoco.
Il rituale collettivo si compie sulle piste da ballo; la musica esce forte dagli altoparlanti, e si riversa sgraziata sulle coppie che interpretano se stesse.
Let’s Folk: non “fenomeni da baraccone”, ma uomini e donne pregni di “umanità”.
L’intento documentaristico scioglie la propria rigiditá al fuoco di un romanticismo decadente, facendo fuoriuscire dal grottesco -di paesaggi, soggetti e scene – una bellezza scarnificata, lievemente sofferente, intensa.
Da Let’s Folk traspare una malinconia inconscia, non conosciuta per esperienza diretta, ma radicata sì profondamente (nello spettatore) da identificarsi con il background emozionale di chi guarda.

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L’arte è un valore aggiunto o un vuoto a perdere?

L’arte, quella “cosa” effimera e al contempo indispensabile, così terribilmente complessa da definire.

Vi siete mai chiesti che valore ha l’arte?  Non mi riferisco a quanto spendereste per acquistare un’opera d’arte…o forse sì, mi riferisco anche a quello (quindi, quanto?!), ma piuttosto a quanto conta l’arte nella vostra vita?

VENERDI 4 LUGLIO Olivares cut chiederà al pubblico che farà visita al Take Care Corner, ospite di VIA PASUBIO PROJECT CORNER (all’interno del festival Pulsart Restart), qual è il loro punto di vista nei confronti del valore dell’arte. Non a esperti del settore, quindi, ma a chiunque abbia voglia di confrontarsi su questo tema.
Comodamente seduti nel salottino del corner, scegliendo tra un mazzo di carte…

(Photo courtesy of Marco Dal Maso for Olivares cut)

 

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IL RISCATTO DI DORA

L’amore di una vita se ne va di casa e io compro due pesci rossi. Dora e Pablo. C’è da stupirsi di come due esserini guizzanti, dentro una bolla di vetro piena d’acqua quasi sempre sporca, siano in grado di tenere compagnia. E di non fare domande indiscrete.
Misi nome ai piccoletti come quelli di uno dei più grandi geni dell’arte del XX secolo, Pablo Picasso, e come l’unica donna forse degna di essere ricordata (o di cui io voglio ricordare) tra le numerose che affiancarono l’incommensurabile artista nella sua lunga vita: Dora Maar. Ai tempi del liceo avevo studiato a fondo la storia di Guernica (il dipinto che Picasso realizzò nel 1937 per commemorare il bombardamento della cittadina basca da parte dell’aviazione nazi-fascista, facendo strage di civili) e in quell’occasione avevo scoperto chi fosse, in realtà, Dora. Lei gli era accanto in quella fase di ritorno alla pittura (dopo due anni di vuoto creativo) e testimoniò tutte le fasi di realizzazione del dipinto attraverso uno splendido ed esaustivo reportage fotografico.
Dora non fu né moglie di Picasso (a differenza di Olga, la ballerina russa dell’entourage di Diaghilev) né madre di alcuno dei suoi figli. Non poteva averne. Forse non fu nemmeno una delle sue più appassionate conquiste amorose, da consumare tra le lenzuola, ma fu certamente una donna che seppe dargli del filo da torcere, intellettualmente. La sua, forse unica, compagna, nel senso più alto (e paritario) del termine.
Quando si incontrarono, a Parigi, al locale chiamato Deux-Magots – il ritrovo preferito dai surrealisti – Picasso aveva 53 anni e Dora 28. A presentarli fu l’amico comune, il poeta Paul Éluard: la sera in cui si conobbero Pablo rimase affascinato dalla risolutezza con la quale Dora stava compiendo un gioco macabro. “Sfilatisi i guanti – neri, con un delicato ricamo di rose – aveva preso un coltello affilato e, posando sul tavolo l’esile mano affusolata dalle unghie rosso rubino, aveva cominciato a colpire, via via più rapidamente, il legno tra un dito e l’altro. A un certo punto, per un movimento sbagliato s’era ferita, ma aveva ugualmente continuato il gioco, mentre la mano si copriva di sangue”.*

Dora Maar, al secolo Henriette Theodora Marković, di origine franco croata, con quella chioma folta di capelli neri, il mento appena sporgente in avanti e uno sguardo fiero, severo, lei così indipendente e libertina, non seppe (o non volle) resistere alle malie del grande Picasso. Ma stare a fianco di uno degli uomini più affascinanti e smaccatamente donnaioli dell’Europa del secolo scorso non fu un’impresa facile, e Dora ne subì, suo malgrado, le conseguenze.
Ma procediamo con ordine.

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Merano sensibile al G.A.P.

Martedì 19 novembre ha aperto i battenti a Merano, presso il Vecchio Palazzo delle Terme/ Ex Fisioterapico, la mostra fotografica itinerante MIND THE G.A.P. –  IL GIOCATORE, giunta, dopo Vicenza e Corsico (MI), al suo terzo appuntamento espositivo.

Il tema del gioco d’azzardo patologico, così come delle modalità di prevenzione e cura dalla dipendenza, sta diventando sempre più d’attualità. Lo Stato Italiano ha, solo da alcuni mesi, riconosciuto la dipendenza dal gioco d’azzardo una vera e propria malattia, allineandosi a quanto già fatto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

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Chirurgo della luce

Al momento di andarsene, Andrea Rosset, primo ospite del Take Care Corner ha detto che questa chiacchierata di oltre un’ora e mezza avremmo potuto farla a casa. Ma, assieme a me, ha convenuto che non sarebbe stato lo stesso. Stavolta non gli è bastato, come fa di solito, scendere due rampe di scale, aprire il portoncino d’ingresso, uscire in strada, fare circa sette passi sotto la linea delle mie finestre e suonare il campanello, per venirmi a raccontare del suo lavoro artistico. La scelta stavolta ricadeva nell’accettare un invito che prevedeva un coinvolgimento diverso. Si trattava, ossia, di attivare un discorso “ravvicinato” sull’arte (gli interlocutori eravamo noi due) ma potenzialmente sotto gli occhi di tutti. L’idea del Take Care Corner è stata quella di traslare in un luogo affollato, con un pubblico vario e di passaggio com’è quello di una fiera, una modalità di interazione che mantenesse idealmente una dimensione quasi intima, funzionale all’ascolto. Prendendomi cura dell’artista (in questo caso prestando ascolto, attenzione, alle parole dell’artista sul suo lavoro) mi prendo cura dell’arte.

“Chi è, la donna della foto?”. E che importanza ha? La prima domanda è mia, la seconda è il condensato della risposta di Andrea. Per parlare del ventennale rapporto con la fotografia di Andrea ho scelto di cominciare lasciando fare a lui stesso delle considerazioni su un suo progetto in particolare, Restrain. E per farlo ha portato con sé una piccola stampa, trenta centimetri per quaranta nella quale è rappresentato il volto di una donna piegato leggermente da un lato, lo sguardo basso sembra seguire il flusso dei pensieri; le spalle che appaiono nella foto sono nude, i capelli escono da una macchia d’oscurità, in cui tutta la sagoma è immersa. E’ difficile, guardando un ritratto, non porsi interrogativi sull’identità del soggetto, come se un’informazione biografica consegnasse un valore aggiuntivo al fine della contemplazione dell’opera. Ma non è questo il punto, non per Andrea.
La ricerca in merito alla fotografia contemporanea di Andrea si compie sul livello del linguaggio: attraverso un lavoro lungo e meticoloso, da tempo lui opera per trovare una modalità esecutiva che conceda al fotografo di allontanarsi sempre più con migliori esiti, dal “predominio dell’occhio”. Sembra un paradosso, eppure nel distaccarsi dall’operazione meccanica che il mezzo implica egli ha la possibilità di dedicarsi con maggiore dedizione alla “ricerca della fotografia”.

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