Agli inizi di questo 2019 ho curato la mostra collettiva STATES OF MIND, esito della prima edizione del Premio di arte contemporanea Under 35 realizzato nell’ambito del programma di attività di Gli Stati della Mente, Festival di arte e cultura sulla salute mentale.
In esposizione presso Palazzo Valmarana Braga dal 1 al 17 febbraio le 15 opere degli artisti finalisti del Premio.
Qui il mio testo, pubblicato sul catalogo assieme ai contributi dei giurati Simona Bordone, Orietta Brombin, Riccardo Caldura, Gabi Scardi, Luigi Viola
Quando, nel 2016, al Festival diedi il nome “Gli Stati della Mente”, avevo in mente una geografia emotiva. Chiedevo al linguaggio dell’arte di fare strada al tema della salute mentale, e nel mio (e suo) incedere prendeva forma la visione delle splendide “stoffe geografiche” del grande maestro Alighiero Boetti. Mappe di lana, intessute fittamente come grandi arazzi antichi, dai colori sgargianti. Bandiere intrise d’ideali, nella maggior parte dei casi sorpassate dopo pochi anni. L’andamento del mondo, tuttavia, non può essere letto se non come un’amplificazione quasi esasperata di quella area piuttosto circostanziata geograficamente che è la mente umana. Questo ci fa procedere – nel mondo reale – attraverso le lotte sinaptiche che avvengono nel suo imperscrutabile interno, in grado di sfondare i limiti fisici, di oltrepassare ogni costrizione. O di alzare svettanti barricate… Questi “Stati della Mente” sono dei non-luoghi, all’interno dei quali tutto può accadere. Che forma hanno, che consistenza hanno? Sono liquidi, come la coscienza di baumiana memoria. Sono solidi, come le radici sulle quali tentano di posarsi. Ma più frequentemente sono ibridi, com’è il vetro, che si crede un cristallo senza doverlo essere. Sono gassosi, e dolciastri al palato, come tanti calici di vino spumante. States of Mind, nella sua veste di prima edizione di premio d’arte dedicata alle giovani generazioni di artisti, avanza a piccoli passi, e mentre procede mette in luce una nuova “mappa morbida”. La trama di questo nuovo arazzo la chiama “contemporaneità”; l’ordito – premessa di un’esecuzione – “racconto limbico”. Ma anch’esso, il “racconto limbico”, è qualcosa di più di un tema: è una cima lanciata verso una mano pronta ad afferrarla. Può essere usata per legare stretto, o annodata per farne una rete, o un cavo ben teso per farci raggiungere, quasi in punta di piedi, il grattacielo dall’altra parte. Sono proprio queste “storie a margine” a creare il tessuto connettivo della mostra collettiva, dove ognuna delle quindici opere che la compongono diventa ganglio prezioso di un pensiero che scorre veloce. Un appiglio della mente, che può soffermarsi, imbattersi in una superficie rifrangente sulla quale specchiarsi, per trovarsi diversa. O non trovarsi per nulla, piuttosto perdersi. C’è una componente poetica che coinvolge quasi tutti i lavori in mostra. Il rapporto con il tempo: è un passato gravido di ricordi – molti da rielaborare, alcuni distillati come essenze odorose, altri definiti come reperti archeologici; o è un presente sospeso, dove spesso la figura umana ritorna con brani di sé, trasmutata, o tendente a scomparire. Così come la dimensione sonora. Il white noise di un elettrodomestico acceso, un silenzio solo apparente. O un grido improvviso che squarcia la quiete. Sta a noi decidere quale Stato abitare, sfumatura dell’animo o traiettoria mentale. Sta solo a noi il gioco di figurarlo o di progettarlo, di tentarlo nuovo o di accoglierlo così com’è.