In preparazione ad ERRANZA, io – in veste di curatrice – e le due artiste Elisa Bertaglia ed Enrica Casentini abbiamo passato un intenso weekend di lavoro e confronto che ha preso la forma di una micro residenza artistica, ospitate giorno e notte ad Atipografia.
Durante una di queste giornate di scambio proficuo è stata assieme a noi Aurora Di Mauro, “madre e sorella” del progetto che vive con lei nella sua stessa casa di Padova, dal nome emblematico “Settima Onda”. Lei che ha fatto della sua “nicchia” un appartamento relazionale – e che guarda con occhio amorevole ed attento a quella fetta di arte contemporanea che gravita dentro e fuori dagli schemi entro i quali spesso si cerca di incasellarla – ha dato un contributo personalissimo al nostro progetto espositivo ERRANZA, scrivendo per noi un testo, pubblicato su “Giornale” di Atipografia.
Quella di Aurora è la traccia scritta di un’osservazione silenziosa (certo, dopo un confronto verbale con le due artiste) sull’esperienza di residenza, durante la quale ha potuto vedere Elisa ed Enrica lavorare, e vivere un momento condiviso, immerse nella preparazione di un importante progetto comune.
Qui riporto la versione integrale del testo di Aurora, mentre nel Giornale in mostra trovate la versione “condensed”. Che può essere un’utile traccia per ritrovarsi lungo il percorso espositivo.
Buona lettura.
Post scriptum: la mostra è visitabile fino al 21 maggio, il venerdì sabato e domenica, dalle 11 alle 19. Atipografia è in Piazza Campo Marzio ad Arzignano.
TABULA ROSA by Aurora Di Mauro (Settima Onda)
Abbiamo parlato molto io, Elisa, Enrica, Petra e Giovanni. Un tavolo ad unirci, noi che ci vedevamo, a parte Petra, per la prima volta. Giovanni, ad un certo punto, si è alzato. Al suo posto, un libro: “Il radicante” di Nicolas Bourriad (Postmedia, 2014) che come strumento radiante (e, giustappunto, come radicante) è stato usato da Petra per collegare (forse legare) due artiste tra loro distinte (forse distanti). Ancora le nostre voci. Soprattutto la mia (è la supponenza dell’ospite atteso). Eppure, quello che nella mia mente ho trattenuto di quella giornata di residenza alla quale ho partecipato da osservatrice (di più: giusta la definizione del 1907 di Simmel, da “straniera interna”) è stato il silenzio. Perché c’era; si percepiva, nonostante la mia voce. Era quel silenzio che sospende ogni pensiero, ma che, se lo sai cogliere, lo rapprende sulla superficie del volto. Era il silenzio che sospende ogni giudizio (l’epoché, il pensiero guida della poiesis di Atipografia per il 2016) e sospende il bisogno di assegnare un’etichetta o un titolo, una didascalia alla persona o a un’opera; ma anche il silenzio che sospende un desiderio impudico, uno sguardo nel buio, una paura taciuta, un salto nel vuoto, un passo a mezz’aria.
Ho dovuto, ad un certo punto, allontanarmi fisicamente, ho dovuto cedere il passo a quelle due donne, per poter ritrovare, dopo il silenzio dalle parole, il silenzio del fare. Ho guardato, anzi, spiato Elisa ed Enrica lavorare sul tetto della vecchia tipografia: le ho viste piegate sui loro lavori, sospese tra terra e cielo. Sotto il tetto, come fossi in preda ad una visione, vedevo apparire, tra carte sospese, l’albero capovolto di Deriva: un albero cosmico, intriso di antico sapere, che, con le sue radici impudicamente aree, invitava a sovvertire l’ordine costituito tra cielo e terra. Sovversivo rovesciamento: un habitat a me naturale.
E di rovesciamento in rovesciamento, tra tetto e terreno, tra basso e alto, tra luce e buio, tra luoghi chiusi e luoghi aperti (è lo stimolante nomadismo tra ambienti e situazioni spaziali che Atipografia è in grado di offrire) Elisa ed Enrica nei giorni della residenza hanno tentato di sovvertire l’ordine costituito delle loro persone, prima di tutto quello di essere autrici distinte: ognuna con le proprie storie di vita e di professione, con i personali percorsi di ricerca e di linguaggio: Elisa, occhi-di-cielo-senza-nuvole, ha cercato di entrare nella profondità dello sguardo ctonio di Enrica, che, all’apparenza, ha occhi refrattari come certa argilla. Le ho viste, durante il loro fare, rivolgersi le spalle, chiudersi a conchiglia sui propri taccuini vergati da segni e disegni, riaprirsi all’improvviso un momento per intrecciare le mani lavorando affiancate; le ho viste poi allontanarsi ancora, mettere tra loro una distanza fisica, azzerare i pensieri, stracciare fogli, percuotere i pennelli, cercare persino pericolosamente la soglia tra tetto e il vuoto sotto di esso. Guardando il giardino, laggiù.
L’erranza in nome della quale la curatrice Petra Cason Olivares ha cercato di unire Elisa Bertaglia ed Enrica Casentini ha avuto dunque luogo fin nella prima fase di passaggio dalla elaborazione in fieri della mostra alla sua finale (finale? Chissà… a me pare una mostra errante in sé) definizione. Il senso del viaggio che ognuna delle artiste si porta dietro per le proprie storie personali – come una valigia al cui interno c’è il peso di tutti i significati di esso (che è non solo esperienza di vita ma orizzonte di senso) – non poteva restare fuori dalla soglia di Atipografia. Prepotentemente è entrata in quello spazio l’onda di quel viaggio, diventato, nello spazio fabbriciere, un micro-viaggio (interno in tutti i sensi) fatto per allungamenti tra i diversi spazi, ma anche di soste, di radicamenti e di sradicamenti nell’agire creativo di Elisa e di Enrica. La mostra è nata soprattutto per sottrazioni. Le due donne, per unirsi, hanno dovuto fare azione di erosione, lieve ma costante, nei confronti di loro stesse. Ne è sortita, come metodo, una “tabula rosa”, che è qui capacità di cancellare trattenendo: è il chiudere alle spalle un passato trattenendone però frammenti, segni; è cancellare le tracce di un passaggio agitandovi sopra la leggerezza di una foglia (un’edera?); cancellando il proprio passaggio (inteso come storia di sé) prima di tutto, annullandolo ma conservando segni, anche esili, che si agganciano ad un sentiero scomparso, forse solo alla vista ma non alla memoria. Frugando tra i pensieri di Bourriaud: “Il radicante può tagliare le proprie radici principali senza danni, può riacclimatarsi; non esiste origine unica ma radicamenti successivi, simultanei o alternati”.
E’ un agire che rappresenta una delle tante possibili immagini di un altro passaggio.
C’è, infatti, uno spazio temporale significativo a mio giudizio che non viene ancora tenuto in gran conto dagli osservatori di ogni tipo, ed è quello del passaggio tra XX e XXI secolo. Ebbe maggior fortuna – abbiamo tutti ricordi liceali in proposito – il crinale tra Ottocento e Novecento, così saturo di paure e di bisogno di riscatti e, conseguentemente, così prolifico, con varie propaggini tra loro anche contrastanti, nelle arti. Sarà forse perché questo XXI secolo – che Bourriaud osserva nel suo bradisismo che impatta sull’artista contemporaneo – è iniziato senza aspettative e senza entusiasmi? Per dirla con le parole di uno scrittore a suo modo nomade: “Anche se non ancora a metà, il ventunesimo era già candidato a diventare il secolo più merdoso della storia. Nessuno ricordava com’era cominciato il declino. Qualcosa, all’improvviso, s’era rotto. Ognuno aveva continuato a fare quello che aveva sempre fatto, ma a un certo punto non era più bastato. Avevano lottato con coraggio; poi, avevano ceduto a una disperazione composta; infine, era calata una tristezza immanente, irrimediabile. Per millenni avevano aspettato con terrore al fine del mondo; ora era come se la fine fosse già avvenuta, di nascosto, e non ci fosse più nulla da aspettare. Tiravano avanti per inerzia, per abitudine, stanchezza, con facce spente, postcoitali”, Paolo Zardi, “XXI secolo”, (Neo, 2015).
E’ uno spazio-tempo sospeso il XXI secolo. L’autore radicante ne è in qualche modo il simbolo, nel suo aggrapparsi viaggiando, nel mondo globalizzato, al tempo nuovo, che è insieme nuovo spazio; si allunga con le estremità al dietro di sé, ma, trattenendolo, diventa non un passato ma altro “di” sé: “L’artista radicante inventa percorsi tra i segni: è un semionauta che mette le forme in movimento, inventando – attraverso e con esse – tragitti per mezzo dei quali si elabora in quanto soggetto, nello stesso tempo in cui si costituisce il suo corpus di opere. Ritaglia frammenti di significazione, raccoglie dei campioni; realizza erbari di forme” (N.Bourriaud) .
Elisa, occhi per nulla liquidi nonostante siano cielo e mare, ha uno sguardo fermo che ha la capacità di guardare dentro e fuori di sé, superando le soglie del visibile. Lo fa con un segno lieve, acqueo e areo insieme. Lo fa tramutandosi in bambina che appare innocente e quasi invita a violare quella innocenza (brutale immaginazione?). Pronta a tuffarsi in mari e in intrecci di foglie, in semi-mondi ma anche in un mondo altro e rovesciato, appare quella bambina (o quel bambino, con un costumino anni Trenta: “l’ambiguità” dell’età dell’innocenza non consentirebbe di dare un sesso preciso) in eterna sospensione come in una attesa afasica, come aggrappata ad un sospetto: cosa trovo oltre il mio salto? Nonostante i suoi occhi di luce, che pongono domande ma non consentono il conforto di risposte, Elisa esibisce un lato oscuro dove la verità va ricercata con sforzo, fisico e mentale, nel buio. Magari in una capsula emozionale, fisicamente liminare negli spazi ampi di Atipografia, dove, alzando gli occhi, puoi trovare una costellazione che si dipana come un’edera fossile, quasi cristallizzata che emana frammenti di luce e di vita. Invitando a oltrepassare quella soglia, a superare la paura del buio per trovare l’illuminazione della costellazione vegetale di Bindwood, Elisa ti invita ad entrare in una parte di sé che sa di casa.
Le vedo sempre meno distanti queste due donne…E non solo nell’area (aerea e materica insieme) senza titolo…
Enrica, che ha occhi che chiamano la terra, si ferma sulla soglia. La sospensione, l’essere radicata in forma aerea al mondo è il suo passo. Lo rappresenta attraverso le sue Open Doors, porte che uniscono e che insieme distanziano: una porta aperta può essere un invito ad entrare ma anche ad allontanarsi, quando vince la paura o il sospetto per ciò che dietro può nascondersi. Come nel salto della bambina di Elisa.
Per ingoiare in un sospiro vitale quel sospetto bisogna saper ascoltare, ricordarsi che l’uomo è eretto e che sta in mezzo tra cielo e terra, che dovrebbe saper captare i segni tra i piedi e la testa, radar e radiante insieme: esile figura è il semionauta di Enrica in questo suo cammino leggero, fragile, pudico, silente. Captare e restituire, è questo il senso, per me ora e qui, dell’essere artista del XXI secolo. Quella piccola testa che appare quasi un orecchio rivolto verso la sfera celeste ad acchiappare costellazioni di segni arcaici, sembra anche una mano a coppa che accoglie nel suo incavo i segni del mondo con cui dissetare il proprio bisogno di sapere.
Quel captare è, per l’autrice, anche il suo presente fluido, orientato alla sperimentazione: uno sperimentare fatto di passi e non di corse, di soste in isole meditative in cui cogliere frammenti di vita: idee, luoghi, azioni, persone, sentimenti. E’ lo spazio del tempo di mezzo, ovvero della istallazione Kairos che chiede una pausa nel viaggio, chiede una sospensione – qualunque essa sia – nell’avventura/ventura/sventura della vita. Per attendere che qualcosa accada.
Sì, Petra, l’ho capito. Sì, lo so che Bourriaud dice che “sono le radici che fanno soffrire gli individui: nel nostro mondo globalizzato persistono alla maniera di quegli arti fantasma la cui amputazione procura un dolore impossibile da combattere, poiché alimentato da una sostanza che non esiste più”. E insiste; e tu insieme a lui: “Piuttosto che opporre una radice fissa ad un’altra, un’origine mitizzata a un suolo integratore e uniformante, non sarebbe più giudizioso fare appello ad altre categorie di pensiero, suggerite d’altronde da un immaginario mondiale in piena mutazione?”
Ma non ce la faccio. Ora ho bisogno di guardarmi indietro. Non posso fare diversamente. D’altronde non sono né un’artista né un critico d’arte. E poi dentro le narici mi è entrata un po’ di terra, che mi dà alla testa. Vedo, così, l’Uomo nella sua arcaicità, fatto di terra e acqua: l’uomo che proviene dal ventre, di una donna, la madre, che è poi il ventre della terra. Quell’uomo che ha attraversato tutti i flussi del tempo, tutte le latitudini, tutti i flussi del mare, tutte i cieli, proviene da un’unica culla, recinto protetto come un giardino (ma anche grande barca nella visione di Enrica per Cradle): “Le antiche lingue mediterranee possedevano un’unica parola per indicare il giardino e il sesso femminile, recinto dell’amore e fonte della vita. Per i Greci il termine era kepos. Questo vocabolo conferma l’origine dell’uomo in un ambiente a lui idoneo, identico alla natura come totalità del cosmo”, (Massimo Venturi Ferriolo, Il giardino della Grande Madre (in “Attraverso giardini. Lezioni di storia, arte, botanica”, Edizioni Guerini e associati 1995). Vi ricordate il giardino guardato dal tetto?
Tossisco. La terra mi esce dalla gola. Respiro verso il cielo per purificarmi. E ancora nei pensieri “arcaici” di Venturi Ferriolo trovo alfine la conferma che la visione maieutica/maniacale che mi aveva ispirato il luogo fabbriciere e febbricitante di Atipografia mi stava portando a vedere finalmente unito il Cielo e la Terra, a de-comporre il sovvertimento e vedere unite Elisa ed Enrica nel loro viaggio distinto (e che tale resta!): “La vita è prodotto del desiderio dei due elementi acqua e terra di congiungersi in un’unione feconda. Il tema è ripreso con le sue varianti dal successivo patrimonio mitico. La Terra e il Cielo, Enki ed Ereshkigal, Gaia e Urano, Zeus ‘pioggia d’oro’ e Danae” (e qui c’è un omaggio ad un amico curatore; lui sì che non guarda indietro ma anticipa il presente).