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Il mio vero cognome è Cason. Olivares l’ho avuto in eredità “dal mio ex marito, narcotrafficante colombiano che, andandosene, mi ha lasciato il nome, una cicatrice e un figlio”. Scherzo.
Ma quel -on finale, è vero. E rivela le mie origini. I miei nonni paterni si trasferirono nel vicentino negli anni Quaranta del secolo scorso emigrando dal Bellunese, dalla vallata di Forno di Zoldo, per la precisione, che è a un tiro di schioppo da Longarone, la città che vive all’ombra della diga del Vajont.

Sfido chiunque, nato dopo il 1963, che sentendo parlare di Vajont non abbia pensato alla tragedia omonima. Dino Buzzati, che dai luoghi del disastro proveniva, nell’articolo apparso sul Corriere della Sera l’11 ottobre 1963 – due giorni dopo che un’enorme porzione del Monte Toc si staccasse dalla montagna per finire ad una velocità di 100 km orari dentro il lago sottostante, l’acqua scavalcasse la diga ad arco (al tempo la più alta del mondo) “come un immenso dorso di balena” e precipitasse “a picco giù nel burrone, avventurandosi, terrificante bolide di schiuma, verso i paesi addormentati” – scrisse queste parole semplici, ma piene di disperazione.
“Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi.”
2500 morti in un attimo. Dicono che alcune persone furono letteralmente vaporizzate dalla furia dell’aria che scese il canalone oltre la diga anticipando di un soffio l’acqua implacabile.

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Una scritta su un muro di una casa di Erto, a pochi km dalla diga

Io questa tragedia non la conoscevo, fino ad oggi, nel dettaglio, e la diga non l’avevo ancora vista, pur essendo passata diverse volte tra il bellunese, il feltrino, l’ampezzano negli anni della mia infanzia, assieme ai miei genitori. Mio padre, accuratamente, ha evitato per anni di condurci fino alla diga; lui, che al tempo della tragedia aveva solo dodici anni, perse alcuni parenti che vivevano a Longarone. Posso solo sforzarmi d’immaginare cosa può significare, per la mente di un ragazzino com’era mio padre nel ‘63, apprendere una notizia del genere. L’angoscia fu tale che preferì non portarci mai a fare quello che lui intendeva come un “tour dell’orrore”, probabilmente intendendolo come irrispettoso nei confronti delle vittime…della diga, le vittime della fame di ricchezza dell’Uomo. La S.A.D.E., l’azienda privata per l’energia idroelettrica che fece costruire la diga, imbibì di troppa acqua una montagna dal cuore tenero, argilloso e calcareo, finché un pezzo si stancò di resistere e scese a valle.
Sul terreno franato ormai gli alberi hanno rinverdito le sommità, obnubilando la memoria di chi conosce per sentito dire ma, per non farci dimenticare del tutto, un fianco del Toc è rimasto nudo, aperto come una ferita, come se da una corpo si facesse scivolare via il lenzuolo che lo copre lasciando intravedere la pelle.

Quel corpo di monte ferito, col fianco nudo, l’ho guardato in poche ore brillare di sole prima, poi oscurarsi da nuvole minacciose e infine bagnarsi di pioggia, da un luogo che ha dello spettacolare, pregno di significato e legato in corda doppia, come si fa nelle arrampicate, con l’arte contemporanea e l’area su cui sorge. Il luogo è il Nuovo Spazio di Casso (quartier generale di Dolomiti Contemporanee) che ha riportato in vita la scuola elementare del paese, facendola diventare un contenitore d’arte che dialoga con il territorio (le Dolomiti, patrimonio dell’umanità – siamo a cavallo tra il Pordenonese e il Bellunese), e nel quale spazio gli artisti interagiscono con gli abitanti, creando un’apertura con l’esterno come non avveniva da decenni, ma attraverso una modalità completamente nuova. Il rispettoso restauro della scuola ha mantenuto la facciata com’era rimasta dal ‘63 – crivellata dai colpi, pietre come proiettili che l’onda mostruosa del lago salito da centinaia di metri più in basso le aveva schiantato addosso, arrivando a scoperchiarla del tetto come una pentola a pressione chiusa male – creando una nuova corazza per l’edificio, ma dall’interno. Tra la nuova e la vecchia pelle un’intercapedine vuota concede una sospensione temporale tra il passato e il presente.

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MANIFESTO PROGRAMMATICO (CON INVITO)

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Il dato personale che trapela da molta parte dei testi che compongono il blog implica, da parte di chi (si) racconta, lo sforzo di oltrepassare la linea di demarcazione che separa la sfera privata dalla sfera pubblica, e costringe le due ad interfacciarsi, a compenetrarsi.
Raccontando di sé, delle proprie vicende personali, qui come altrove, si mettono a nudo degli aspetti della propria individualità che possono infastidire chi legge, se questi li vede come un pretesto all’esibizionismo, un’ostentazione anziché una modalità di connessione.
La nudità imbarazza, quella dei sentimenti lo fa ancor più rispetto la nudità della carne. Spogliarsi può significare provocazione, abbandonarsi al piacere di lasciarsi guardare (dentro). Ma il fraintendimento non è tanto nei confronti dei modi, quanto del fine: quel brano di coscia cerebrale che si mostra non mira a suscitare scalpore – non fine a se stesso, perlomeno – ma ad aggiungere un tassello al difficile percorso di conoscenza, di sé, e dell’altro.
Entrando in contatto con gli artisti avviene tra le parti una sorta di do ut des. Io espongo una parte della mia nudità cerebrale, racconto parte del mio vissuto nella misura in cui trovo di fronte a me terreno fertile ad accogliere parole e, per contro, troverò uno spiraglio, un taglio tra le costole dove affondare le dita, saggiare la “veridicità” del mio interlocutore, il quale non viene mai forzato ad aprirsi, ma messo deliberatamente nella condizione di raccontarsi. Le domande sono poche, non è un’intervista. Mai.
Lo scopo è duplice. Da una parte permane la volontà di instaurare un legame con l’Individuo che ho davanti, dall’altro si manifesta la necessità di approfondire una conoscenza – dapprima superficiale – al fine di acquisire elementi in più per comprendere il lavoro dell’Artista.
L’invito ad esserci al Take Care Corner è questo. Io mi siedo, ascolterò. Raccontatevi, se lo vorrete.

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(photo courtesy of Marco Dal Maso for Olivares Cut)

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TAKE CARE CORNER a INDEPENDENTS4

Olivares Cut sarà ospite di INDEPENDENTS4 (Art Verona Fiera) con il progetto TAKE CARE CORNER. Dal 10 al 14 ottobre.
La mia personale declinazione della pratica della curatela mi porta a “prendermi cura” degli artisti in prima persona, ancor prima del loro lavoro. Questo “prendermi cura” consiste nell’instaurare con loro un rapporto di fiducia ed empatia che va al di là del solo rapporto professionale, ritenendo che il legame che si va a creare sia fondamentale alla progettazione di azioni future, artistiche o curatoriali, che coinvolgano le parti con una modalità bidirezionale.
L’arte di oggi ha bisogno dell’“emozionale”. Di una grande professionalità ma anche di recuperare i rapporti interpersonali. Ciò che scaturisce dalla mente dell’artista, quello che esce dal suo operato, è pregno della storia personale di ogni individuo, e ne influenza (in maniera più o meno evidente) l’approccio concettuale così come le scelte stilistiche. E talvolta si richiede che questo aspetto, degno d’attenzione, sia messo in evidenza, richiamando l’interesse di una curiosità genuina, non morbosa.

TAKE CARE CORNER vuole essere un angolo privilegiato dedicato al racconto e all’ascolto, nel quale mettere a proprio agio gli artisti ospiti del corner, dando loro la possibilità di raccontarsi e raccontare i loro progetti artistici – nella misura e con il trasporto che più riterranno idoneo – con la finalità di raccogliere materiale per sviluppare, in questo senso, il blog (Olivares Cut) e una rete di contatti tra diverse professionalità.

Il pubblico potrà interagire direttamente con il corner in veste di ascoltatore o narratore (nel caso di artisti, o curatori a loro volta), o attraverso piattaforme on line:

  • il blog Olivares Cut (petraolivares.tumblr.com)
  • la pagina su facebook (Olivares Cut)
  • attraverso Twitter (usando l’hashtag dedicato #olivarescut)

Gli artisti che avranno piacere di essere ospiti di TAKE CARE CORNER, rientrando nel calendario di Olivares Cut, possono scrivermi a petra.cason@gmail.com

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(photo courtesy of Marco Dal Maso for Olivares Cut)

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Intrecciare Legami

Il 9 luglio di un anno fa cadeva di lunedì. E nella calura estiva, mentre io percorrevo la A4 per raggiungere Forte Marghera, il mio compagno di una vita svuotava casa nostra dalle sue cose.

Negli ultimi mesi alcune cose sono cambiate moltissimo, altre affatto. Comunque credo che quel giorno non avrei potuto fare nient’altro. L’arte, in più di un’occasione, mi ha salvato dalla disperazione.

Un anno fa, dunque, andavo a raggiungere (la mia era una fuga da qualcosa, più che un viaggio verso qualcosa) Andrea Penzo e Cristina Fiore alla prima delle tre conferenze da loro curate nell’ambito del progetto Ecology of Mind, riflessioni sul pensiero filosofico dell’antropologo britannico Gregory Bateson. Prima parte di un lavoro costituito di tre fasi, che avrebbe dato vita, a novembre, ad una collettiva dal titolo Punti di Ancoraggio, e successivamente a un testo (omonimo, e fresco di stampa) riassuntivo delle elaborazioni di un anno di riflessioni e scambi di considerazioni tra loro, in veste di curatori, e i giovani artisti invitati ad interfacciarsi con gli scritti e le teorie batesoniane.

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