MEMORABILIA-LE
MEMORA-BILI-ALE
MEMORA-BILIALE
MEMORABILI-ALE
MEMORABILIALE
Ho bisogno di una memoria storica. Mentre pensavo a come raccontare del mio “adieu” a XXXXXXXX, mi è tornata alla mente quella famosa cantilena di Marina Abramovic, in cui lei, chiusa la relazione con Ulay, il suo inseparabile compagno, nella vita e nell’arte – ambiti che così spesso coincidevano, o si fondevano indissolubilmente – recitava come un mantra, all’interno di non ricordo più quale performance. Bye-bye, Extremes. Bye-bye, Purity. Bye-bye, Togetherness. Bye-bye, Intensity. Bye-bye, Jealously. Bye-bye, Structure. Bye-bye, Tibetans. Bye-bye, Danger. Bye-bye, Unhappiness. Bye-bye, Solitude. Bye-bye, Tears. Bye-bye, Ulay. […]
Monica è seduta ai piedi della gradinata del piccolo teatro. É lí fin dall’ingresso del primo spettatore in sala. Da dove sono seduta vedo le sue spalle sottili, la pelle bianca, le spalline del reggiseno, bianco anch’esso, e la canotta fucsia, coperta in parte dai capelli argentei, raccolti in una piccola coda. Non si muove di lì finchè le luci in sala non si spengono, lasciando il posto ai proiettori accesi sopra il piccolo palcoscenico. […]
Alcune notti fa ho fatto un sogno vivido: ho sentito, con l’esattezza della realtà, il peso di un corpo che si sdraiava sopra al mio, ne ho percepito la pressione sulla cassa toracica, il contatto della pelle, il piacere della vicinanza. Tutt’altro che restia a provare un’esperienza simile, ho ceduto, in sogno, all’abbraccio di cui ero protagonista. Al risveglio ero talmente certa che l’esperienza non fosse stata solamente onirica – relegata alla brevissima parentesi della fase REM – da provare un certo disappunto non trovando al mio fianco quel corpo sognato. In che modo la psiche condiziona (in sogno così come nella vita reale) il nostro corpo e la percezione che abbiamo di esso? Poche sono le volte in cui ci si lascia andare “come un corpo morto cade”. […]
Incontrai quel tale in treno. Stavo viaggiando alla volta di Treviso e mi imbattei in un uomo anziano, un’ottantina d’anni, all’incirca. Aveva una barbetta lunga e appuntita, da capro, e gli occhi vispi, che contrastavano con la pelle rugosa che li contornava. Con quelli scrutava l’intero scompartimento, saltando da un passeggero all’altro come cavallette affamate. Quando si fermò sui miei occhi cominciò a raccontare, senza un preambolo. E prese a narrarmi della Casa di Follina. […]
Facciamo che parliamo un po’ della concatenazione degli eventi. E’ tutta la vita che trascorre così, no? Solo che a volte non ce ne rendiamo conto, non facciamo molto caso a quanto certe faccende siano legate tra loro. Ad essere onesta non ho ben capito se in maniera del tutto casuale, o se invece sono io – a posteriori – a unire nella mia mappa mentale tutti quei puntini che corrispondono ai singoli eventi e trovarvi infine un disegno leggibile che assomiglia vagamente alla mia vita. […]
Il mio vero cognome è Cason. Olivares l’ho avuto in eredità “dal mio ex marito, narcotrafficante colombiano che, andandosene, mi ha lasciato il nome, una cicatrice e un figlio”. Scherzo.
Ma quel -on finale, è vero. E rivela le mie origini. I miei nonni paterni si trasferirono nel vicentino negli anni Quaranta del secolo scorso emigrando dal Bellunese, dalla vallata di Forno di Zoldo, per la precisione, che è a un tiro di schioppo da Longarone, la città che vive all’ombra della diga del Vajont. Ho passato un anno sottotraccia. […]
Da quando il “mentore” mi ha chiesto qual era il mio curatore preferito sono caduta dallo sgabello in cui ero seduta, ho smesso di fare “robette”, e ho cominciato a studiare. Non ho più smesso.
Nemmeno una mostra ho curato da sola, quest’anno. Ma ho accumulato valanghe di pagine lette e sottolineate, decine di treni presi, innumerevoli mostre viste, battuto a tappeto qualche buona fiera (qui e oltremanica). Ho centinaia tra fotografie scattate, post condivisi, articoli sul sito portati a compimento; centinaia di ore di confronti con artisti, curatori, galleristi, amici vecchi e nuovi. Ho intessuto reti sempre più ampie, guardato il mondo dell’arte contemporanea da una prospettiva diversa, nuova, meno edulcorata.
Mi son fatta venire qualche buona crisi, ma poi l’ho superata, smettendo di concentrarmi sugli obiettivi (professionali), ma cercando di mantenermi fedele al metodo che mi sto costruendo. Il tiro va assestato continuamente. […]
“Per attraversare la Colonia hai bisogno di una mappa”. Elisa prende dalla borsa un foglio piegato in quattro e lo apre davanti ai nostri occhi. Credo che neppure con quello sarei in grado di destreggiarmi tra il dedalo di corridoi vuoti che mi si para davanti. Ma a tentare l’esplorazione non sono io, ma il compagno di Maria, con la piccola Clara vestita da orsetto infilata nel marsupio e per niente infastidita dal freddo che investe anche la Colonia. Padre e figlia si incamminano lungo la rampa, mentre io ed Elisa riprendiamo la nostra chiacchierata. […]
L’amore di una vita se ne va di casa e io compro due pesci rossi. Dora e Pablo. C’è da stupirsi di come due esserini guizzanti, dentro una bolla di vetro piena d’acqua quasi sempre sporca, siano in grado di tenere compagnia. E di non fare domande indiscrete. […]
Intro. Ti ho riconosciuto nell’atrio della fiera, nell’andirivieni di gente ininterrotto che ti circondava. Tu eri al telefono e io ho pronunciato il mio nome senza emettere suono, per non disturbare la conversazione. “Petra”. Letto il labiale, hai chiuso la chiamata e ci siamo presentati come si conviene. Una stretta di mano, due baci sulle guance. Quelle cose che si fanno quando ci si vede per la prima volta, dopo essersi scambiati il giusto numero di messaggi scritti e una telefonata per capire dalla voce di che pasta si è fatti. […]
Il 9 luglio di un anno fa cadeva di lunedì. E nella calura estiva, mentre io percorrevo la A4 per raggiungere Forte Marghera, il mio compagno di una vita svuotava casa nostra dalle sue cose. […]
********************************************************************************
“Petra Cason tiene un blog in cui scrive d’arte in modo piuttosto narrativo e molto personale, un po’ diario e un po’ critica. Mi racconta che l’ha aperto in un momento in cui nella sua vita si è verificato un taglio (Cut, in inglese che poi è l’acronimo che significa tutt’altro di parte del titolo del blog). Per la Collezione mi porpone un cut-up (alla Borroughs!) del primo paragrafo di alcuni articoli del blog, quelli a cui è più legata. Quetsa raccolta di frammenti, di schegge d’arte, si mescola ad una raccolta di memorabilia domestica, tracce di memoria intima (cioè oggetti che sono come aneddoti di vita – e l’aneddoto, spiega Walter Benjamin, è simile alla collezione). E il blog di Petra, in fondo, è così: raccontare l’arte parlando della vita, e viceversa.” (Daniele Monarca, dal catalogo)
********************************************************************************
COLLEZIONE EFFIMERA. Un progetto di Daniele Monarca
MEMORABILIALE, “cut” di Petra Cason Olivares (photo courtesy Andrea Garzotto)
– Domenica 17 aprile 2016 –
In preparazione ad ERRANZA, io – in veste di curatrice – e le due artiste Elisa Bertaglia ed Enrica Casentini abbiamo passato un intenso weekend di lavoro e confronto che ha preso la forma di una micro residenza artistica, ospitate giorno e notte ad Atipografia.
Durante una di queste giornate di scambio proficuo è stata assieme a noi Aurora Di Mauro, “madre e sorella” del progetto che vive con lei nella sua stessa casa di Padova, dal nome emblematico “Settima Onda”. Lei che ha fatto della sua “nicchia” un appartamento relazionale – e che guarda con occhio amorevole ed attento a quella fetta di arte contemporanea che gravita dentro e fuori dagli schemi entro i quali spesso si cerca di incasellarla – ha dato un contributo personalissimo al nostro progetto espositivo ERRANZA, scrivendo per noi un testo, pubblicato su “Giornale” di Atipografia.
Quella di Aurora è la traccia scritta di un’osservazione silenziosa (certo, dopo un confronto verbale con le due artiste) sull’esperienza di residenza, durante la quale ha potuto vedere Elisa ed Enrica lavorare, e vivere un momento condiviso, immerse nella preparazione di un importante progetto comune.
Qui riporto la versione integrale del testo di Aurora, mentre nel Giornale in mostra trovate la versione “condensed”. Che può essere un’utile traccia per ritrovarsi lungo il percorso espositivo.
Buona lettura.
Post scriptum: la mostra è visitabile fino al 21 maggio, il venerdì sabato e domenica, dalle 11 alle 19. Atipografia è in Piazza Campo Marzio ad Arzignano.
TABULA ROSA by Aurora Di Mauro (Settima Onda)
Abbiamo parlato molto io, Elisa, Enrica, Petra e Giovanni. Un tavolo ad unirci, noi che ci vedevamo, a parte Petra, per la prima volta. Giovanni, ad un certo punto, si è alzato. Al suo posto, un libro: “Il radicante” di Nicolas Bourriad (Postmedia, 2014) che come strumento radiante (e, giustappunto, come radicante) è stato usato da Petra per collegare (forse legare) due artiste tra loro distinte (forse distanti). Ancora le nostre voci. Soprattutto la mia (è la supponenza dell’ospite atteso). Eppure, quello che nella mia mente ho trattenuto di quella giornata di residenza alla quale ho partecipato da osservatrice (di più: giusta la definizione del 1907 di Simmel, da “straniera interna”) è stato il silenzio. Perché c’era; si percepiva, nonostante la mia voce. Era quel silenzio che sospende ogni pensiero, ma che, se lo sai cogliere, lo rapprende sulla superficie del volto. Era il silenzio che sospende ogni giudizio (l’epoché, il pensiero guida della poiesis di Atipografia per il 2016) e sospende il bisogno di assegnare un’etichetta o un titolo, una didascalia alla persona o a un’opera; ma anche il silenzio che sospende un desiderio impudico, uno sguardo nel buio, una paura taciuta, un salto nel vuoto, un passo a mezz’aria.
Ho dovuto, ad un certo punto, allontanarmi fisicamente, ho dovuto cedere il passo a quelle due donne, per poter ritrovare, dopo il silenzio dalle parole, il silenzio del fare. Ho guardato, anzi, spiato Elisa ed Enrica lavorare sul tetto della vecchia tipografia: le ho viste piegate sui loro lavori, sospese tra terra e cielo. Sotto il tetto, come fossi in preda ad una visione, vedevo apparire, tra carte sospese, l’albero capovolto di Deriva: un albero cosmico, intriso di antico sapere, che, con le sue radici impudicamente aree, invitava a sovvertire l’ordine costituito tra cielo e terra. Sovversivo rovesciamento: un habitat a me naturale.
E di rovesciamento in rovesciamento, tra tetto e terreno, tra basso e alto, tra luce e buio, tra luoghi chiusi e luoghi aperti (è lo stimolante nomadismo tra ambienti e situazioni spaziali che Atipografia è in grado di offrire) Elisa ed Enrica nei giorni della residenza hanno tentato di sovvertire l’ordine costituito delle loro persone, prima di tutto quello di essere autrici distinte: ognuna con le proprie storie di vita e di professione, con i personali percorsi di ricerca e di linguaggio: Elisa, occhi-di-cielo-senza-nuvole, ha cercato di entrare nella profondità dello sguardo ctonio di Enrica, che, all’apparenza, ha occhi refrattari come certa argilla. Le ho viste, durante il loro fare, rivolgersi le spalle, chiudersi a conchiglia sui propri taccuini vergati da segni e disegni, riaprirsi all’improvviso un momento per intrecciare le mani lavorando affiancate; le ho viste poi allontanarsi ancora, mettere tra loro una distanza fisica, azzerare i pensieri, stracciare fogli, percuotere i pennelli, cercare persino pericolosamente la soglia tra tetto e il vuoto sotto di esso. Guardando il giardino, laggiù.
L’erranza in nome della quale la curatrice Petra Cason Olivares ha cercato di unire Elisa Bertaglia ed Enrica Casentini ha avuto dunque luogo fin nella prima fase di passaggio dalla elaborazione in fieri della mostra alla sua finale (finale? Chissà… a me pare una mostra errante in sé) definizione. Il senso del viaggio che ognuna delle artiste si porta dietro per le proprie storie personali – come una valigia al cui interno c’è il peso di tutti i significati di esso (che è non solo esperienza di vita ma orizzonte di senso) – non poteva restare fuori dalla soglia di Atipografia. Prepotentemente è entrata in quello spazio l’onda di quel viaggio, diventato, nello spazio fabbriciere, un micro-viaggio (interno in tutti i sensi) fatto per allungamenti tra i diversi spazi, ma anche di soste, di radicamenti e di sradicamenti nell’agire creativo di Elisa e di Enrica. La mostra è nata soprattutto per sottrazioni. Le due donne, per unirsi, hanno dovuto fare azione di erosione, lieve ma costante, nei confronti di loro stesse. Ne è sortita, come metodo, una “tabula rosa”, che è qui capacità di cancellare trattenendo: è il chiudere alle spalle un passato trattenendone però frammenti, segni; è cancellare le tracce di un passaggio agitandovi sopra la leggerezza di una foglia (un’edera?); cancellando il proprio passaggio (inteso come storia di sé) prima di tutto, annullandolo ma conservando segni, anche esili, che si agganciano ad un sentiero scomparso, forse solo alla vista ma non alla memoria. Frugando tra i pensieri di Bourriaud: “Il radicante può tagliare le proprie radici principali senza danni, può riacclimatarsi; non esiste origine unica ma radicamenti successivi, simultanei o alternati”.
E’ un agire che rappresenta una delle tante possibili immagini di un altro passaggio.
C’è, infatti, uno spazio temporale significativo a mio giudizio che non viene ancora tenuto in gran conto dagli osservatori di ogni tipo, ed è quello del passaggio tra XX e XXI secolo. Ebbe maggior fortuna – abbiamo tutti ricordi liceali in proposito – il crinale tra Ottocento e Novecento, così saturo di paure e di bisogno di riscatti e, conseguentemente, così prolifico, con varie propaggini tra loro anche contrastanti, nelle arti. Sarà forse perché questo XXI secolo – che Bourriaud osserva nel suo bradisismo che impatta sull’artista contemporaneo – è iniziato senza aspettative e senza entusiasmi? Per dirla con le parole di uno scrittore a suo modo nomade: “Anche se non ancora a metà, il ventunesimo era già candidato a diventare il secolo più merdoso della storia. Nessuno ricordava com’era cominciato il declino. Qualcosa, all’improvviso, s’era rotto. Ognuno aveva continuato a fare quello che aveva sempre fatto, ma a un certo punto non era più bastato. Avevano lottato con coraggio; poi, avevano ceduto a una disperazione composta; infine, era calata una tristezza immanente, irrimediabile. Per millenni avevano aspettato con terrore al fine del mondo; ora era come se la fine fosse già avvenuta, di nascosto, e non ci fosse più nulla da aspettare. Tiravano avanti per inerzia, per abitudine, stanchezza, con facce spente, postcoitali”, Paolo Zardi, “XXI secolo”, (Neo, 2015).
E’ uno spazio-tempo sospeso il XXI secolo. L’autore radicante ne è in qualche modo il simbolo, nel suo aggrapparsi viaggiando, nel mondo globalizzato, al tempo nuovo, che è insieme nuovo spazio; si allunga con le estremità al dietro di sé, ma, trattenendolo, diventa non un passato ma altro “di” sé: “L’artista radicante inventa percorsi tra i segni: è un semionauta che mette le forme in movimento, inventando – attraverso e con esse – tragitti per mezzo dei quali si elabora in quanto soggetto, nello stesso tempo in cui si costituisce il suo corpus di opere. Ritaglia frammenti di significazione, raccoglie dei campioni; realizza erbari di forme” (N.Bourriaud) .
Elisa, occhi per nulla liquidi nonostante siano cielo e mare, ha uno sguardo fermo che ha la capacità di guardare dentro e fuori di sé, superando le soglie del visibile. Lo fa con un segno lieve, acqueo e areo insieme. Lo fa tramutandosi in bambina che appare innocente e quasi invita a violare quella innocenza (brutale immaginazione?). Pronta a tuffarsi in mari e in intrecci di foglie, in semi-mondi ma anche in un mondo altro e rovesciato, appare quella bambina (o quel bambino, con un costumino anni Trenta: “l’ambiguità” dell’età dell’innocenza non consentirebbe di dare un sesso preciso) in eterna sospensione come in una attesa afasica, come aggrappata ad un sospetto: cosa trovo oltre il mio salto? Nonostante i suoi occhi di luce, che pongono domande ma non consentono il conforto di risposte, Elisa esibisce un lato oscuro dove la verità va ricercata con sforzo, fisico e mentale, nel buio. Magari in una capsula emozionale, fisicamente liminare negli spazi ampi di Atipografia, dove, alzando gli occhi, puoi trovare una costellazione che si dipana come un’edera fossile, quasi cristallizzata che emana frammenti di luce e di vita. Invitando a oltrepassare quella soglia, a superare la paura del buio per trovare l’illuminazione della costellazione vegetale di Bindwood, Elisa ti invita ad entrare in una parte di sé che sa di casa.
Le vedo sempre meno distanti queste due donne…E non solo nell’area (aerea e materica insieme) senza titolo…
Enrica, che ha occhi che chiamano la terra, si ferma sulla soglia. La sospensione, l’essere radicata in forma aerea al mondo è il suo passo. Lo rappresenta attraverso le sue Open Doors, porte che uniscono e che insieme distanziano: una porta aperta può essere un invito ad entrare ma anche ad allontanarsi, quando vince la paura o il sospetto per ciò che dietro può nascondersi. Come nel salto della bambina di Elisa.
Per ingoiare in un sospiro vitale quel sospetto bisogna saper ascoltare, ricordarsi che l’uomo è eretto e che sta in mezzo tra cielo e terra, che dovrebbe saper captare i segni tra i piedi e la testa, radar e radiante insieme: esile figura è il semionauta di Enrica in questo suo cammino leggero, fragile, pudico, silente. Captare e restituire, è questo il senso, per me ora e qui, dell’essere artista del XXI secolo. Quella piccola testa che appare quasi un orecchio rivolto verso la sfera celeste ad acchiappare costellazioni di segni arcaici, sembra anche una mano a coppa che accoglie nel suo incavo i segni del mondo con cui dissetare il proprio bisogno di sapere.
Quel captare è, per l’autrice, anche il suo presente fluido, orientato alla sperimentazione: uno sperimentare fatto di passi e non di corse, di soste in isole meditative in cui cogliere frammenti di vita: idee, luoghi, azioni, persone, sentimenti. E’ lo spazio del tempo di mezzo, ovvero della istallazione Kairos che chiede una pausa nel viaggio, chiede una sospensione – qualunque essa sia – nell’avventura/ventura/sventura della vita. Per attendere che qualcosa accada.
Sì, Petra, l’ho capito. Sì, lo so che Bourriaud dice che “sono le radici che fanno soffrire gli individui: nel nostro mondo globalizzato persistono alla maniera di quegli arti fantasma la cui amputazione procura un dolore impossibile da combattere, poiché alimentato da una sostanza che non esiste più”. E insiste; e tu insieme a lui: “Piuttosto che opporre una radice fissa ad un’altra, un’origine mitizzata a un suolo integratore e uniformante, non sarebbe più giudizioso fare appello ad altre categorie di pensiero, suggerite d’altronde da un immaginario mondiale in piena mutazione?”
Ma non ce la faccio. Ora ho bisogno di guardarmi indietro. Non posso fare diversamente. D’altronde non sono né un’artista né un critico d’arte. E poi dentro le narici mi è entrata un po’ di terra, che mi dà alla testa. Vedo, così, l’Uomo nella sua arcaicità, fatto di terra e acqua: l’uomo che proviene dal ventre, di una donna, la madre, che è poi il ventre della terra. Quell’uomo che ha attraversato tutti i flussi del tempo, tutte le latitudini, tutti i flussi del mare, tutte i cieli, proviene da un’unica culla, recinto protetto come un giardino (ma anche grande barca nella visione di Enrica per Cradle): “Le antiche lingue mediterranee possedevano un’unica parola per indicare il giardino e il sesso femminile, recinto dell’amore e fonte della vita. Per i Greci il termine era kepos. Questo vocabolo conferma l’origine dell’uomo in un ambiente a lui idoneo, identico alla natura come totalità del cosmo”, (Massimo Venturi Ferriolo, Il giardino della Grande Madre (in “Attraverso giardini. Lezioni di storia, arte, botanica”, Edizioni Guerini e associati 1995). Vi ricordate il giardino guardato dal tetto?
Tossisco. La terra mi esce dalla gola. Respiro verso il cielo per purificarmi. E ancora nei pensieri “arcaici” di Venturi Ferriolo trovo alfine la conferma che la visione maieutica/maniacale che mi aveva ispirato il luogo fabbriciere e febbricitante di Atipografia mi stava portando a vedere finalmente unito il Cielo e la Terra, a de-comporre il sovvertimento e vedere unite Elisa ed Enrica nel loro viaggio distinto (e che tale resta!): “La vita è prodotto del desiderio dei due elementi acqua e terra di congiungersi in un’unione feconda. Il tema è ripreso con le sue varianti dal successivo patrimonio mitico. La Terra e il Cielo, Enki ed Ereshkigal, Gaia e Urano, Zeus ‘pioggia d’oro’ e Danae” (e qui c’è un omaggio ad un amico curatore; lui sì che non guarda indietro ma anticipa il presente).
Aurora Di Mauro, assieme ad Elisa Bertaglia ed Enrica Casentini, le artiste di ERRANZA, e Giovanni Paolin di Atipografia.
Giovedì 31 marzo inaugura ad Arzignano, negli spazi di Atipografia, ERRANZA. Del radicante e di altri segni, doppia personale – a mia cura – delle artiste Elisa Bertaglia e Enrica Casentini. Qui di seguito alcune mie considerazioni che raccontano da dove è nata questa mostra, e già alcune anticipazioni sulle opere che si stanno preparando.
GENESI DI UNA MOSTRA
L’artista contemporaneo è un essere in viaggio. Elabora un pensiero nomade, e il suo avanzamento è fatto di nuovi segni che diventano, con l’incedere, parte di un bagaglio (culturale, iconografico, verbale, concettuale) sempre più esteso.
Punto di partenza della riflessione che ha portato a questa mostra è stato un saggio sull’arte contemporanea scritto dal critico d’arte francese Nicolas Bourriaud (uscito nel 2009 in Francia e nel 2014 nella traduzione italiana) intitolato “Il radicante. Per un’estetica della globalizzazione”, testo che è stato letto e discusso da tutte noi nel corso di questi mesi, e che ci è servito da traccia, per un’idea di esposizione, lungo la quale aprire un dialogo tra noi tre e, per ogni singola artista, attuando una riflessione nei confronti del proprio lavoro.
Nella mia pratica curatoriale ho posto una di fronte all’altra due artiste (Elisa Bertaglia ed Enrica Casentini) che non si conoscevano, e che non conoscevano nemmeno il pregresso artistico l’una dell’altra, ma delle quali avevo intravisto un’affinità elettiva. E ho posto loro una sfida: quella di confrontarsi (ancor prima di farlo tra loro, realizzando una mostra assieme, lavorando a quattro mani su un progetto condiviso) con la figura del Radicante e con le teorie sul contemporaneo elaborate dal critico francese.
Chi è, e dove sta andando l’artista contemporaneo? Qual è la direzione che sta prendendo la ricerca artistica, e che tipo di relazione sta instaurando con la contemporaneità? Questi fondamentalmente sono i nodi attorno ai quali gravitano le considerazioni di Bourriaud, questioni che abbiamo tentato di fare nostre.
Bourriaud parla della sua visione dell’artista contemporaneo quale figlio del suo tempo, in un ormai avviato XXI secolo, individuo che si trova – nell’altermodernità – ad abbandonare, volente o nolente, i pre-concetti che furono fondanti per il secolo appena trascorso.
L’autore, dopo aver fatto un quadro completo che parte dalla modernità, giunge ai giorni nostri interrogandosi su chi siano le figure dominanti della cultura contemporanea, e riscontra nella figura dell’errante (sia esso l’immigrato, l’esiliato o il turista) l’individuo figlio del proprio tempo. E utilizza un linguaggio proveniente dal mondo vegetale, per descriverne le caratteristiche che lo rappresentano: gli esseri che abitano questo XXI secolo ricordano i radicanti “quelle piante che per crescere non si affidano a un’unica radice, ma avanzano in tutti i sensi sulle superfici che si offrono loro, aggrappandovisi”. Come l’edera, come la fragola, come la gramigna. Il radicante fa crescere – in base alle necessità – una ramificazione secondaria che affianca la radice principale, e si sviluppa e trae nutrimento a seconda del terreno che lo accoglie, instaurando un nuovo rapporto con lo spazio con cui il radicante entra in contatto.
Ma come è giunto Bourriaud alla figura del “radicante”? Faccio un passo indietro.
Il modernismo era ossessionato dal concetto di radicalità, ossia dalla volontà inarrestabile di ritornare alle origini (le radici) e per fare questo insistette nel fare tabula rasa dello stato delle cose, spianando letteralmente il terreno sul quale ricostruire da zero un linguaggio privo delle scorie che la Storia aveva lasciato in eredità. Le Avanguardie storiche, aderendo totalmente a questo concetto, lavorarono per sottrazione, epurando l’arte degli influssi del passato, e decretando il “nuovo” a “criterio estetico” in sé. Qui la radice “rappresenta al contempo un’origine mitica e una destinazione ideale”. L’andamento della pianta che lo rappresentava (l’albero) era biunivoco e unidirezionale: le radici ben ancorate a terra, inamovibili, e il fusto svettante verso l’alto, seguendo uno sviluppo lineare, l’unico consentito.
Il postmodernismo invece non fece altro che applicare un lavoro contro la radicalità. Tutto ciò che era ben affondato ad un terreno stabile e duraturo, quasi dogmatico, venne non solo abbandonato ma rifiutato, a partire dall’Internazionale Situazionista alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, per il quale lo stato di fluidità e fluttuazione non era un processo ma il fine. Il territorio della modernità diventa uno stato di deterritorializzazione, e in questa fluttuazione la cultura appare liquida, che si compone – o decompone – di tutti i segni che facevano parte di stili ed epoche precedenti, che ora appaiono non solo decontestualizzati, ma riassemblati a piacere, per dare luogo a nuove prospettive, che rifiutano le forme a favore di un eclettismo generalizzato.
Al simbolismo della modernità, il postmodernismo ribatte con una frammentazione che fa dei segni semplici “referenti culturali”, ormai sganciati dal reale.
In un’epoca che vede entrare nella scena economica quelle che diverranno in questo secolo le nuove grandi potenze, i paesi in via di sviluppo, il progresso appare il deus ex machina sotto cui vive il modernismo. E in questa nuova posizione la “radice” del XX secolo riappare sotto la forma nuova e totalizzante della globalizzazione, che però, dal canto suo, tende ad estirpare le vecchie identità storiche puntando all’uniformità, all’appiattimento, alla nuova spinta nazionalistica.
Ecco che si giunge allo stato attuale delle cose, all’altermodernità, epoca che vede il soggetto individuale (o collettivo) assumere una nuova connotazione identitaria: egli ora è privo di ancoraggi, o ormeggi, e il movimento fa parte del suo stesso “essere” (nel senso di esistere in maniera attiva, non passiva).
Bourriaud associa a questo individuo (l’immigrato, l’esiliato, ma anche il turista e l’errante urbano) l’immagine emblematica del “radicante”, metafora della figura dominante della cultura contemporanea.
L’individuo errabondo assume le fattezze e le caratteristiche intrinseche di vegetali come l’edera, “i quali fanno crescere le radici a seconda della loro avanzata”, e trae nutrimento e appoggio dal suolo che, a seconda del suo incedere, è pronto ad accoglierlo. Pertanto è l’individuo stesso ad adattarsi allo spazio entro (o sopra) al quale esso si muove.
L’artista contemporaneo è esso stesso, in quanto figlio della propria epoca, un individuo errante, che vive nel costante dualismo tra due forze uguali ed opposte, che lo portano da un lato a sentire come necessario il legame con l’ambiente dal quale proviene, e dall’altro a voler lasciare che lo sradicamento prevalga sulle due. A metà tra l’identità (rivolgendosi a se stesso) e l’apprendimento dell’Altro. Il soggetto diventa esso stesso un “oggetto di negoziazioni”.
Questa mostra diventa, per Elisa ed Enrica, il terreno su cui si incontrano due poetiche stilisticamente differenti, ma convergenti in un tema comune. Una doppia personale “site specific” e “time specific” che concede alle due artiste di confrontarsi autonomamente, dando ampio respiro alle ricerche personali, ma da un lato le piega l’una verso l’altra, non in un semplice accostamento di opere, quanto piuttosto alla ricerca di un approccio condiviso a proposito del tema che è stato argomento di scambio degli ultimi mesi. All’interno della riflessione le due artiste hanno riversato la propria esperienza soggettiva, che è stata fondante all’ideazione dei lavori “dedicati”. Entrambe “nomadi” per vocazione, si sono ritrovate negli ultimi anni a confrontarsi con identità e culture “altre” (Enrica avendo vissuto diversi anni a Londra, Elisa facendo avanti e indietro da New York), e in questi passaggi hanno portato con sé nuove consapevolezze, grandi interrogativi e conseguentemente tentativi di risposta.
L’individuo/artista contemporaneo è in costante re-radicamento. Può tagliare la radice principale senza subire danni: l’abbandono del luogo d’origine non è mai un tradimento del punto di partenza, ma in una ipotetica scala gerarchica nella formazione di un individuo questo aspetto non è necessariamente il più importante. L’artista radicante si mette in viaggio senza avere la preoccupazione di un luogo in cui tornare. Porta con sé, e diventano parte della sua identità, i frammenti raccolti lungo questo viaggio (geografico o ideale che sia), “a condizione di trapiantarli su altri suoli e di accettare la loro permanente metamorfosi”.
In questo avanzamento costante e ininterrotto “i contatti con il suolo si riducono” e quello che prende piede è un “pensiero nomade”, e in questo continuo movimento l’artista si ritrova a farsi strada tra una distesa di segni, che elabora facendoli propri.
KAIROS – ENRICA CASENTINI (ph. Alessandra Vinci)
Nel proprio incedere il semionauta, l’essere radicante, pone nuove ramificazioni e fa nascere nuove isole di conoscenza: osservandolo con sguardo distaccato ha l’aspetto di una rete, con sottili linee di congiunzione tra punti sparsi, senza un ordine apparente. L’opera “Bindwood” (termine arcaico dell’edera – ivy – e che ne definisce il suo “aggrapparsi, essere avvinta” al legno) di Elisa Bertaglia assume le fattezze di una costellazione vegetale. Punti luminosi che fanno emergere, attraverso le trame fitte delle foglie incise, una costellazione nella costellazione. Le piccole bambine – elemento caratterizzante della poetica di Elisa – emergono attraverso piccolissimi fori che bucano le superfici carnose delle foglie intrappolate in un contenitore di luce. La visione dal basso (all’interno dello spazio buio e raccolto che accoglie l’installazione) consente di percepire tanto le venature della vitalità linfatica dei supporti vegetali, quanto i corpicini luminosi delle piccole protagoniste, sospese in un tempo in divenire che le proietta in una mappa segnica attraverso la quale ritrovare la direzione del proprio cammino.
BINDWOOD – ELISA BERTAGLIA
Riferimenti delle artiste
ELISA BERTAGLIA www.elisabertaglia.com
ENRICA CASENTINI www.enricacasentini.com
IMMAGINE IN EVIDENZA | CARTOLINA: intervento delle artiste – Asilo Bonazzi, Arzignano.
Petra Cason Olivares, art curator
Nell’estate del 2013 per la prima volta Dolomiti Contemporanee varca la soglia della vecchia scuola elementare di Casso, l’unica del paese e abbandonata dal 1963, e la fa diventare il suo quartier generale, piegando quel suo progetto artistico nomadico a parentesi inaspettatamente stanziale.
Da quel momento le mostre realizzate all’interno della scuola (che resa agibile con un sapiente restauro conservativo prese il nome di Nuovo Spazio di Casso) sono state numerose e, se riguardo indietro e sfoglio virtualmente il catalogo mentale che le raccoglie, vi trovo un minimo comune denominatore: quello di non prescindere dall’instaurare un dialogo tra le singole ricerche artistiche e il territorio che le accoglie, e diventa scenario esplorativo, tanto dal punto di vista sociologico quanto storico e morfologico. Come le numerose collettive realizzate sinora, così il concorso Two Calls, da poco concluso, fanno parte di un cantiere mai esausto, una piattaforma tanto virtuale quanto concreta all’interno della quale trovano dimora dibattiti sulla rilettura del paesaggio attraverso la contemporaneità artistica.
Sono molti gli artisti che hanno, negli anni, interpretato le residenze a Casso come funzionali alla creazione di legami con il luogo a partire dai suoi abitanti, ertani e cassani, che portano nelle pieghe della propria pelle e nei racconti delle proprie storie la memoria di una Storia più grande, quella che sconvolse l’andamento regolare di vite umane e di un paesaggio inalterato da secoli, modificandone profondamente gli assetti e gli equilibri.
E’ impossibile dimenticare dove ci si trova. Se si guarda a sud, fuori dalle finestre ampie dello Spazio, ci si trova di fronte al Toc, quel monte fragile dal nome onomatopeico che franò gran parte del suo involucro più esterno di pietra e terra dentro l’invaso d’acqua arginato dalla diga sul Vajont, provocando un’onda distruttiva.
Lui è sempre lì, con un fianco scoperto, dal 1963. E non è facile il compito che si è prefissa fin da subito Dolomiti Contemporanee: smetterla di parlare di morte, e trovare parole nuove, iconografie nuove, in grado di immaginare un futuro.
Le riletture di queste memorie storiche si vanno a fondere con il vissuto e le pratiche dei singoli artisti, dando vita a reinterpretazioni di un patrimonio segnico appartenente al vissuto individuale, identitario.
In questi giorni si è inaugurata una nuova collettiva, a cura di DC in collaborazione con Stefano Moras, intitolata To’nòn ignà. Questo termine ha, per le genti del Vajont – nel dialetto locale -, il valore di un “tornare qua”, dove l’elemento spaziale scinde dall’elemento temporale. Se To’nòn ignà indica la volontà di tornare alle origini, e da un lato si intende il luogo geografico di provenienza, dall’altro è il costrutto culturale ad essere ricercato, agognato, plasmando di volta in volta l’”hic et nunc” in un risultato che è una summa di tutti i passaggi effettuati in un determinato luogo in momenti distinti.
La ricognizione territoriale compiuta dal gruppo di artisti nel tempo della residenza, guidata dal geologo Emiliano Oddone di Dolomiti Project, ha permesso una presa di possesso quasi fisica della morfologia delle pendici nude del Toc, e il sopralluogo è divenuto terreno fertile per la ricerca, fin dal prelievo di elementi rinvenuti in natura che diventano parte integrante dell’opera artistica. Questo lavoro d’assieme ha permesso una crasi silenziosa e coerente a livello espositivo, che consente un’amplificazione del tema di fondo.
Dislocate sui tre piani del Nuovo Spazio di Casso troviamo le opere degli otto artisti in mostra: le tavolette dipinte di Veronica De Giovannelli aprono il circuito, ritraendo l’interazione tra microcosmo e macrocosmo, re-visione delle pratiche divinatorie antiche, che scrutavano nella natura i presagi di un destino ineluttabile. I segni della frana li ha impressi in fogli di carta realizzati direttamente sul monte, nei frottage che compongono la serie “Litogenesi”.
Evelyn Leveghi ha raccolto materiali “preziosi”, durante i sopralluoghi, e in mostra li ritroviamo in fragili mensole da wunderkammer, una collezione inusuale di reperti minerali e vegetali all’interno di prismi e semisfere di gelatina alimentare. Leveghi usa il cibo quale medium principale della sua ricerca, e ha trovato nella gelatina la sostanza più adatta per esaltare le caratteristiche dei frammenti di pietra raccolti, delle bacche o dei fiori trovati. Ha invitato il pubblico a cibarsi di piccole pietre di cioccolato, repetita dolci di un piccolo pezzo di montagna, e di scorze di carote e patate fritte e poste come un cimelio sopra una lastra di pietra, piccolo altare portatile, di “waste” nobilitato a nutrimento.
Stefano Moras, nel ritrarre la Montagna, ha abbandonato qualsiasi riferimento realistico, lasciando alla pittura di esprimersi attraverso passaggi cromatici antinaturalistici. Una scelta in forte contrasto con le immagini fotografiche d’archivio usate da Pamela Breda, che attua una frattura nelle vette ritratte strappando semplicemente il supporto cartaceo, in un gesto che ha il peso dell’ineluttabile.
La zolla di terra ricomposta da Moras in “Falde” poggia su un fascio di carta Repap impaginata come una pietra e che della pietra ha tutte le caratteristiche chimiche, giocando sul concetto di resistenza e ciclicità della materia. Il pubblico è invitato ad annaffiare la zolla, contribuendo a rinverdirla, prato-à-porter.
Elementi dalla crescita lineare come gli alberi sono portati a confondere le fronde con le proprie radici, nell’installazione di Lara J. Marconi, che forza il punto di vista ribaltando l’andamento naturale delle cose, specchio degli eventi passati. Accosta un “diario di viaggio”, uno sketchbook denso di suggestioni segniche, a porzioni di lastre incise, a piccole case in fogli di carta cucite a mano, a pattern che scivolano fuori dal contorno dei pannelli appesi e macchiano il muro. Un piccolo mondo onirico nelle sfumature di un bianco appena rivelato.
Lorenzo Commisso in “Reflecting” si interroga sull’ambiguità del senso (inteso come direzione) dell’immagine, mescolando icone e iconografie della montagna.
Roberto Da Dalt ha archiviato all’interno di arnie vuote le conformazioni geologiche dell’area traslate in pannelli di gesso: piccoli abissi portatili, le cime e le vallate come nettare che nutre un paesaggio, composto – in una seconda installazione – da modelli di architetture paradossali.
Tra numerose opere che partono dal paesaggio per tornare al paesaggio, alcune di queste si staccano per riportare un equilibrio legato alla vicenda dell’umano: Nicolas Magnant ha riassemblato senza soluzione di continuità gli oggetti e i materiali raccolti tra i due paesi nel periodo di residenza, dando vita una installazione che altera il senso delle singole parti. Al centro della sala l’opera ricorda le “stacking balance”, torrette di pietre accatastate in equilibrio precario, ma pur sempre mantenuto. Delle pietre però rimane soltanto l’idea, la forma, laddove il peso e la sostanza vengono alterati dalla materia.
Equilibrio precario che si riflette nelle tensioni mai completamente sopite tra gli abitanti dei due paesi limitrofi. Leveghi propone attraverso l’opera partecipativa “Cum-panis” l’incontro tra ertani e cassani, ai quali ha donato parti uguali di pasta madre per poter realizzare forme di pane da condividere al termine della mostra con gli astanti. Un elemento di condivisione “in potenza”, ma che necessita di uno sforzo (da parte dei riceventi) che va oltre l’intenzione dell’artista, al fine di portare a compimento l’opera, e cambiare lo stato delle cose.
In un’installazione molto toccante, Pamela Breda espone a pavimento alcune scarpe spaiate rinvenute in un rudere di Erto dall’artista stessa. Le calzature logore e polverose trovano, nell’opera di Breda, un pendant in una copia odierna di ciascuna scarpa, realizzate da sapienti artigiani, per tentare di colmare l’assenza, il vuoto della perdita che sconvolse, nella tragedia, anche la quotidianità degli oggetti.
********************
To’nòn ignà
Mostra collettiva
22 agosto – 26 settembre 2015
A cura di Dolomiti Contemporanee, in collaborazione con Stefano Moras
Artisti: Pamela Breda, Lorenzo Commisso, Roberto Da Dalt, Veronica De Giovannelli, Evelyn Leveghi, Nicolas Magnant, Lara J. Marconi, Stefano Moras.
Dal prossimo 1 luglio al 17 luglio l’esposizione fotografica MIND THE G.A.P. riprende il suo tour per le città italiane facendo tappa nella capitale piemontese, ospitata negli Antichi Chiostri di Via Garibaldi 25 a Torino.
MIND THE G.A.P. – IL GIOCATORE è il nome della mostra fotografica che nel novembre 2012 venne esposta per la prima volta a Vicenza mostrando alcuni scatti che componevano il complesso reportage fotografico realizzato dal fotografo Marco Dal Maso sul tema del gioco d’azzardo e la cura della dipendenza dal gioco: le due facce di una stessa medaglia.
Quella che inizialmente si può intendere come una debolezza diventa una vera e propria patologia. Il gioco d’azzardo patologico, o gambling patologico, è una malattia del cervello, classificata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, connotata come una dipendenza patologica “senza sostanza”. Il giocatore protagonista di questi scatti è l’essere umano: lasciandosi travolgere dal fascino del gioco, resta invischiato nelle sue spire, crolla nella dipendenza e tenta un percorso di recupero per tornare, nei casi più fortunati, ad essere una persona libera.
La mostra si divide in due sezioni: una identificativa delle fasi del gioco d’azzardo, dalle fortunate vincite ai costanti fallimenti, che alternano casinò di lusso a centri scommesse in strade di passaggio, a sale colme di slot machines in grigie periferie; la seconda invece porta l’attenzione al percorso di risalita dalla dipendenza: protagonista di questi scatti è il centro Bad Bachgard, nella provincia di Bolzano, assieme ai suoi ospiti. In questa struttura specializzata nel recupero da dipendenze da gioco, il malato compie un percorso di disintossicazione attraverso diverse modalità di cura, che vanno dall’arte terapia alla terapia di gruppo. Un percorso complesso, per sconfiggere la grande solitudine del quale l’individuo è diventato preda, per uscire dall’enorme G.A.P. dal quale sembra impossibile una risalita.
In occasione della tappa torinese MIND THE G.A.P. abbandona il bianco e nero delle precedenti esposizioni lasciando spazio, negli scatti che compongono la mostra, al ritrovato colore originario.
MIND THE G.A.P – IL GIOCATORE
1-17 LUGLIO
Dal lunedì al venerdì, dalle 9 alle 18
Antichi chiostri – Via Garibaldi 25 TORINO
info@olivarescut.it
L’esposizione MIND THE G.A.P. è realizzata nell’ambito del Piano locale giovani Città Metropolitana di Torino,
con il patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri, della Regione Piemonte, della Città di Torino e di Torino Giovani.