LA SOTTILE LINEA TRA IL REALE E L’IRREALE. Da Carver a Hanson

Facciamo che parliamo un po’ della concatenazione degli eventi. E’ tutta la vita che trascorre così, no? Solo che a volte non ce ne rendiamo conto, non facciamo molto caso a quanto certe faccende siano legate tra loro. Ad essere onesta non ho ben capito se in maniera del tutto casuale, o se invece sono io – a posteriori – a unire nella mia mappa mentale tutti quei puntini che corrispondono ai singoli eventi e trovarvi infine un disegno leggibile che assomiglia vagamente alla mia vita.

Comunque, esce Birdman al cinema, qualche mese fa. Al diavolo il grande schermo, me lo sono guardato tutto d’un fiato sul divano di casa. Il monitor del computer certo non rendeva giustizia ai voli pindarici dell’uomo uccello, ma sono riuscita comunque a farmi ingoiare dai dialoghi, dalle scene ben oltre la cortina del surreale, dai gesti scriteriati di un uomo al limite della sua esistenza.
Thomson che rientra in mutande nel suo teatro, dopo essere stato sbeffeggiato dalla folla, e mima la pistola che non ha puntando addosso alla sua ex moglie e a quel belloccio di Norton, a letto assieme sul palcoscenico, le nude dita messe a elle, non riesco a togliermelo dalla mente. Per me fu quello il climax del film. La tragedia nella tragedia. Una tragedia fatta a ruota, che continua a girare e a tornare su se stessa, magari in modo apparentemente diverso, ma in realtà è sempre la stessa, che si ripresenta.

Ma perché sto parlando di Birdman? Perché è l’inizio del mio racconto su Duane Hanson.
Dunque, stavo tornando da Milano, qualche settimana fa, e in attesa del treno – fuori un diluvio universale – mi infilo dentro la Feltrinelli. La stazione era piena di migranti in un modo imbarazzante, poveri cristi pensavo, a guardarli mentre attendono che succeda qualcosa, qualsiasi cosa che li porti via da lì. Era da poco terminato lo sciopero dei trasporti, e per quanto sia impressionantemente alta la Stazione Centrale mi pareva di soffocare, tanta era la gente che si accalcava tra i binari, di fronte ai negozi, nel sotterraneo di fronte la biglietteria, all’ingresso della metropolitana. Non ho capito se è stata agorafobia, la mia, o semplice paura nel sentirmi appiccicata addosso tutta quell’aria carica di tensione.
La Feltrinelli, quindi. In realtà ero alla ricerca di un altro libro (che ho trovato e divorato in tempo record, “Nel mondo a venire”, di Ben Lerner, ma questa è un’altra storia), quando mi è caduto l’occhio su un volume che aveva due dettagli riconoscibili. Il primo, ancor prima del titolo fu il disegno in copertina, un’illustrazione che sapevo da chi fosse stata eseguita: Shout, al secolo Alessandro Gottardo. Solo qualche mese prima avevo scritto una recensione sulla sua mostra qui a Vicenza, e certamente le illustrazioni per i racconti di Carver erano tra i lavori che mi avevano impressionato di più. Queste figure indolenti, silenziose, e le ambientazioni rese con pochi, sintetici tratti, o campiture di colore piattissimo, lasciavano quel misto di tristezza e incompresione, nello sguardo dello spettatore, che rapiva, inevitabilmente. La tragedia (compiuta o meno che sia) ha un odore irresistibile, un fascino irresistibile.
In secondo luogo il titolo: Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. Touché. Ecco, ora si collegano i puntini: Shout, Birdman e l’odore della disperazione. Lo prendo.

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Raymond Carver. In quarta di copertina trovo la biografia, bizzarra: “figlio di un operaio di segheria e di una cameriera. Nato il, morto il”. Fine.
Com’è possibile che non ci sia scritto dove questo genio abbia imparato a scrivere in un modo così meravigliosamente disperato? Beh, è stata la moglie, a convincerlo a frequentare quel corso di scrittura, di approfondire all’università quella che fino a quel momento era stata più che una passione un’urgenza, un bisogno, una necessità.
Carver lo scavatore. Generazioni di scrittori in erba invidiano il suo stile, riconoscibile, insuperabile, gonfio di imitatori. Non è asciutto, nè secco: è l’apoteosi della sintesi, il suo tratto. Non una parola di più di quelle che servono, per inquadrare una scena, per farci capire chi è il derelitto protagonista del racconto. Eppure descrizioni minute definiscono davanti ai nostri occhi, frase dopo frase, le case in cui queste coppie allo sbando vivono, ti sembra di sentirlo nelle narici l’odore di quel divano ammuffito, dove un giovane uomo sta gettando la sua esistenza dopo essere stato licenziato. Lo senti tintinnare il ghiaccio dentro ai bicchieri che i personaggi riempiono di gin e tonica e se li portano alle labbra ogni mezzo paragrafo. Tutto l’alcol del mondo per tirare avanti certe storie amare, e credo sia stata quella lattina di birra stretta nella mano del giardiniere, per prima, a farmi ricordare di Carver e dei suoi racconti cortissimi, appena oltre l’ingresso della Serpentine Sackler Gallery, a Londra.
Ci finisco dentro di domenica mattina, nella galleria, quasi a ora di pranzo. Hyde Park è uno spettacolo, sotto un sole scintillante di fine luglio che fa brillare lo specchio d’acqua gremito di piccole barchette a remi. I sentieri che costeggiano il lago sono attraversati da un pacifico andirivieni di gente, e le sdraio da mare – manca la scritta BIBIONE sopra le righe verticali! – in quella giornata assolata non cozzano poi tanto con il clima non esattamente estivo del resto del mio soggiorno londinese.

Ci metto un attimo prima di capire quello che sto vedendo, oltrepassata la porta a vetri del palazzetto a un piano. Di fianco alla porta d’ingresso un cowboy è posato alla parete, il cappello calato sugli occhi. Di fronte a me a sinistra un uomo grasso, sulla sessantina, seduto su una tagliaerba spenta, un cappello da baseball gli copre la pelata. Ha lo sguardo perso di fronte a sé, e nella mano stringe una lattina di birra, un po’ deformata dalla stretta vigorosa.
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Sulla destra una signora in là con gli anni indossa una t-shirt rosa a righe che urla anni ottanta, e pantaloncini corti e larghi: è seduta su una seggiola e tiene un piede appoggiato all’altro ginocchio, così da avere l’appoggio per la rivista che sta leggendo. Attorno a lei ci sono pile di vecchi libri e quadri da rigattiere.
Poco più in là sta una donna giovane, dal viso grazioso, vestita con degli abiti decisamente stretti per un corpo così formoso. Tiene il peso tutto su una gamba, e guarda fissa verso l’ingresso della galleria. Ma d’un tratto si allontana da questo trittico perfetto, rompendo l’equilibrio da sacra e muta conversazione espositiva, per indicare il bagno ad una delle visitatrici.
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In mostra tutto il paradosso di Duane Hanson, guardasala paffuta compresa. Un artista che si è applicato fino allo sfinimento per confondere il reale con l’irreale, per mischiare le carte sul tavolo e rimettere una copia della realtà di fronte ai nostri occhi in tutta la sua assoluta inconsistenza. Ancor più dei caduti di guerra o le vittime di stragi dei suoi lavori passati, questa retrospettiva sull'”umanità media”, possiamo chiamarla così, in resina poliestere e fibra di vetro, è incredibilmente scioccante. Ma non sono gli abiti consunti, le rughe della pelle o i capelli veri posticci sopra le teste di queste sculture così credibili, ad essere toccanti: è il loro essere così smaccatamente comuni nei ruoli che ricoprono – il giardiniere, l’imbianchino, il magazziniere, la donna delle pulizie, i manovali -, quasi banali nei loro tratti fisiognomici – assomigliano a qualcuno ma non ritraggono realmente nessuno – che ci lascia perplessi e ammutoliti di fronte a loro. Ed ecco instaurarsi un dialogo assurdo, silenzioso, tra queste figure e noi che vaghiamo come degli spettri per le stanze della galleria, parandoci davanti ad ognuno di loro, cercando un’interazione che ci pare impossibile non avere.

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Forse stiamo cercando noi stessi, fissando i loro persi occhi vitrei. Forse vediamo la nostra stessa disperazione stando faccia a faccia con l’unemployer con la camicia a quadri che tiene tra le mani un cartello che dice “lavoro per cibo”. Sono lo specchio di noi stessi, quei lavoratori pensierosi, i bambini a giocare su un tappeto, uomini e donne seduti a un tavolino, uno di fronte all’altro, a stringere nelle mani una bottiglia di birra piuttosto che un bicchiere di gin.
Eccole qui, le coppie di cui tante volte ho letto nei racconti di Carver. Individui prossimi alla separazione, prossimi al suicidio, prossimi a compiere una follia nella speranza di una vita migliore. Ma che intanto stanno lì, muti come pesci, a fissare il vuoto che li accompagna, oltrepassando qualunque cosa o chiunque stia davanti alle loro piccole, insignificanti, trascurabili esistenze.
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MIND THE G.A.P. La voragine del gioco d’azzardo in mostra a Torino

Dal prossimo 1 luglio al 17 luglio l’esposizione fotografica MIND THE G.A.P. riprende il suo tour per le città italiane facendo tappa nella capitale piemontese, ospitata negli Antichi Chiostri di Via Garibaldi 25 a Torino.

MIND THE G.A.P. – IL GIOCATORE è il nome della mostra fotografica che nel novembre 2012 venne esposta per la prima volta a Vicenza mostrando alcuni scatti che componevano il complesso reportage fotografico realizzato dal fotografo Marco Dal Maso sul tema del gioco d’azzardo e la cura della dipendenza dal gioco: le due facce di una stessa medaglia.
Quella che inizialmente si può intendere come una debolezza diventa una vera e propria patologia. Il gioco d’azzardo patologico, o gambling patologico, è una malattia del cervello, classificata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, connotata come una dipendenza patologica “senza sostanza”. Il giocatore protagonista di questi scatti è l’essere umano: lasciandosi travolgere dal fascino del gioco, resta invischiato nelle sue spire, crolla nella dipendenza e tenta un percorso di recupero per tornare, nei casi più fortunati, ad essere una persona libera.

La mostra si divide in due sezioni: una identificativa delle fasi del gioco d’azzardo, dalle fortunate vincite ai costanti fallimenti, che alternano casinò di lusso a centri scommesse in strade di passaggio, a sale colme di slot machines in grigie periferie; la seconda invece porta l’attenzione al percorso di risalita dalla dipendenza: protagonista di questi scatti è il centro Bad Bachgard, nella provincia di Bolzano, assieme ai suoi ospiti. In questa struttura specializzata nel recupero da dipendenze da gioco, il malato compie un percorso di disintossicazione attraverso diverse modalità di cura, che vanno dall’arte terapia alla terapia di gruppo. Un percorso complesso, per sconfiggere la grande solitudine del quale l’individuo è diventato preda, per uscire dall’enorme G.A.P. dal quale sembra impossibile una risalita.

In occasione della tappa torinese MIND THE G.A.P. abbandona il bianco e nero delle precedenti esposizioni lasciando spazio, negli scatti che compongono la mostra, al ritrovato colore originario.

MIND THE G.A.P – IL GIOCATORE
1-17 LUGLIO
Dal lunedì al venerdì, dalle 9 alle 18
Antichi chiostri – Via Garibaldi 25 TORINO
info@olivarescut.it

L’esposizione MIND THE G.A.P. è realizzata nell’ambito del Piano locale giovani Città Metropolitana di Torino,
con il patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri,  della Regione Piemonte, della Città di Torino e di Torino Giovani.

 

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RESIDENZA|RESILIENZA a Milano con ‘Spring Makers’

RESIDENZA|RESILIENZA fa parte dei progetti selezionati per SPRING MAKERS, progetto di crowdfunding realizzato in occasione di EXPO 2015. Al link i dettagli del progetto.

– segue comunicato stampa – 

Spring Makers
16 giugno – 11 settembre 2015
Sala EXPO 2 – Hotel Klima Milano, via Privata Venezia Giulia 8 – 20157 Milano
Info 349/8452986 – info@laboratorioalchemico.com

Conferenza stampa e inaugurazione MARTEDI 16 giugno 2015, ore 18.30

LOGO SPRINGMAKERS

A cura di FIDAPA BPW ITALY sez. Milano (Capofila), Associazione Laboratorio Alchemico, AmAMi

START – UP
BEN SCELTO – Progetto per un supermercato senza controindicazioni
ACCAERRE – Business Coaching
TURISALUS- Mobilità e Logistica per turisti con esigenze di salute particolari – Turismo medicale
RAPPORTO TRA LAVORATORE E DATORE DI LAVORO: internalizzazione del professionista di riferimento . Creazione di un gruppo di studio internazionale per giungere ad un protocollo etico condivisibile
META_NOUVEAU – il tavolo si mette in luce
CAR SHARING – turismo culturale ed enogastronomico lombardo con car sarin
NATURA DONNA IMPRESA: un simposio work in progress per mettere in rete donne che fanno green economy


PROGETTI
WHALELESS di Giovanni Cervi
RESIDENZA|RESILIENZA di Petra Cason Olivares
LO SPIRITO DI MILANO di Mario Washington
SISTEMA NAVIGLIO di Giovanni Pelloso
GLI INVISIBILI di Francesca Romano
CARNE. UMANOMALìE di Emanuele Beluffi e Christian Zucconi
PROGETTO PARCO DELLE LETTERE MILANO dell’Associazione Quarto Paesaggio
ACQUA DA BUTTARE di Mauro Mariani
VALICO TERMINUS di Nila Shabnam Bonetti e Giovanni Cervi
PICCOLO MUSEO DELLE ARTI APPLICATE di Michael Rotondi

Ideazione > Nila Shabnam Bonetti
Grafica > Mauro Mariani, Giovanni Cervi
Partner > AIDDA deleg. Lombardia, EXPO 2015, WOMEN FOR EXPO, B to BE WOMEN IN ETHIC BUSINESS, Klima Hotel Milano, AmAMi, Laboratorio Alchemico, FIDAPA BPW ITALY sez. Milano

Spring Makers è un progetto di crowdfunding che mette in rilievo le potenzialità della creatività made in Italy in occasione di Expo 2015. Esso mira a esporre e valorizzare progetti, sia di iniziative produttive all’insegna dell’innovazione e della sostenibility sia d’arte e design, progetti in linea con la filosofia e la mission delle Associazioni partner: FIDAPA BPW ITALY, LABORATORIO ALCHEMICO, AmAMi e AIDDA, con l’obiettivo di attrarre possibili finanziatori presenti come clienti nell’Hotel.
Le Associazioni in partnership creano un network sinergico in grado di realizzare concretamente una della principali finalità dell’Expo, che è quella di individuare e promuovere nuovi talenti e nuove imprese che proiettino nel futuro artistico e imprenditoriale i valori e i criteri di sostenibilità necessari per il futuro del nostro pianeta.
L’Hotel Klima è la sede più idonea proprio per la filosofia con la quale è stato progettato e con la quale opera ed è da subito stato partner di grande disponibilità e collaborazione.
In questi spazi si esprimeranno al meglio i contenuti di Spring Makers che si vogliono presentare, attraverso video, parole, immagini.
I progetti proposti hanno una forte connotazione ecologica e sociale, sono testimonianza della necessità di ridefinizione del ruolo dell’uomo nella sfera collettiva. Tutto converge nel disagio sociale ed economico che stiamo vivendo in questi anni e nel bisogno di orientarci verso scelte nuove ed ecologiche per migliorare noi stessi e la società.

In occasione della conferenza stampa in data 16 Giugno, dalle 18.30, sarà possibile presenziare alla conferenza stampa in sala Expo 2 del Klima Hotel e vedere i video di presentazione dei progetti in area bar, dove sarà offerto un rinfresco agli ospiti.

In questo primo step il materiale sarà consultabile sui siti:
laboratorioalchemico.com
fidapanordovest.it/milano
piattaforma di concierge online consultabile dagli ospiti di Klima Hotel
aidda.org

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“Bye Bye Ulay”. Addio a Metamorfosi Gallery

Ho bisogno di una memoria storica.
Mentre pensavo a come raccontare del mio “adieu” a Metamorfosi Gallery, mi è tornata alla mente quella famosa cantilena di Marina Abramovic, in cui lei, chiusa la relazione con Ulay, il suo inseparabile compagno, nella vita e nell’arte – ambiti che così spesso coincidevano, o si fondevano indissolubilmente – recitava come un mantra, all’interno di non ricordo più quale performance. Bye-bye, Extremes. Bye-bye, Purity. Bye-bye, Togetherness. Bye-bye, Intensity. Bye-bye, Jealously. Bye-bye, Structure. Bye-bye, Tibetans. Bye-bye, Danger. Bye-bye, Unhappiness. Bye-bye, Solitude. Bye-bye, Tears. Bye-bye, Ulay.

Con la separazione terminava un periodo storico, per Marina e Ulay. Il tempo delle performance estreme, della tensione emotiva, del rapporto simbiotico e folle che sperimentava gli eccessi. Finiva una fase importante della loro vita, e della loro carriera. Poi via, ognun per sè.
Ora. Certo che non voglio paragonare la mia dipartita da un’associazione alla separazione di due dei più grandi performer e artisti degli ultimi anni ma, credete (alla mia vena melodrammatica, soprattutto) le separazioni, alla fine, si assomigliano un po’ tutte.
Il mio rapporto con la vita e con l’arte intese come un legame simbiotico hanno fatto sì che io non sia mai stata in grado di vedere ciò di cui mi occupo come un passatempo, per cui riversare me stessa all’interno di un progetto in cui credo non è stato solo naturale, ma inevitabile.
Per questo la decisione di lasciare un progetto al quale ho dato i natali, ho dedicato anni di energie, idee e tempo, per creare, per intessere relazioni, è paragonabile all’abbandono di un amante, con tutto il carico di emozioni che una separazione comporta.

Il 15 maggio cadeva il terzo anniversario della fondazione di Metamorfosi Gallery. E io ho deciso, armi e bagagli, di uscirmene, di lasciare.
Lascio, dopo averci dedicato tutto l’amore di cui sono stata in grado, per voltare pagina, per cambiare metodo, per andare avanti.
Tre anni che sono stati per me di intenso lavoro, non solo con Angela Stefani ed Elena Piazza (con le quali all’inizio condividevo anche Palazzo Leoni Montanari) ma anche assieme ad una rete fittissima di artisti, curatori, istituzioni, partner, amici cari, i quali hanno collaborato, anche fuori dalle fila, a rendere Metamorfosi Gallery quello che è stata.

Nel 2010 mi chiamarono un artista, Emjl Berdin, e l’allora assessore alla cultura del Comune di Dueville, Michele Cisco, per parlarmi della piccola esposizione, Metamorfosi, che raccoglieva le opere degli artisti italiani, di Dueville, e degli artisti di Schorndorf (la cittadina tedesca a poche decine di km da Stoccarda) e per chiedermi di occuparmene.
Ecco quanto. Non avrei creduto che una piccola mostra sarebbe diventata il pretesto (e avrebbe dato il nome) per un progetto a lungo termine, e che divenne, nel 2012, un’associazione, in occasione di K/R/S, la grande mostra che realizzammo a Caldogno, nello spazio espositivo C4, un bunker della Seconda Guerra Mondiale. Il gemellaggio tra Dueville, Schorndorf e Tulle è continuato per anni, e prosegue tutt’ora, non senza difficoltà. Non ricordo più quanti artisti parteciparono, con centinaia di opere, due camion per trasportarle in giro per l’Europa e migliaia di km di spostamento.

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Inaugurazione di K/R/S a caldogno nel settembre 2012

Quel gemellaggio produsse mostre grandi e piccole, come Micrometamorfosi alla biblioteca di Dueville la prima edizione, e nel 2013 anche ospiti di Spazio Nadir a Vicenza. Il sodalizio con la Germania fu lungo. Un anno (nel 2010) portai le opere da esporre alla Notte dell’Arte (la Kunstnacht di Schorndorf) stivate dentro un cassone che pareva il baule di un enorme trasloco.

Il baule con le opere d'arte nel van di Uko

Il baule con le opere d’arte nel van di Uko

L’anno successivo, sempre a settembre, io e Ale affrontammo in tre giorni un viaggio di quasi venti ore, tra andata e ritorno, con la Panda colma di quadri. Sembravamo degli esuli, o dei ladri di opere d’arte. Ma la mostra in Germania fu spettacolare.
Nel 2012 salimmo tutti, io, Angela ed Elena, e vennero con noi anche alcuni degli artisti che esponevano e qualche amico: Andrea ed Elena, Marco con Marianna, Hzg. Ci ospitarono gli amici tedeschi. Doro, Uko, Hardy, EBBA. Fu un viaggio memorabile.

Delegazione italiana alla Kunststrasse 2012

Delegazione italiana alla Kunststrasse 2012

Ora non ha neppure molto senso cercare di disporre i ricordi in ordine cronologico. Perchè sapete come funziona la memoria, confonde le cose secondo criteri che sono del tutto arbitrari.
Per cui racconto di GHISA Art Fusion come fosse un progetto a se stante, quando invece si è protratto per tre anni, mischiandosi nel frattempo ad altri progetti. Ideato assieme ad Anna Zerbaro, Ghisa (che inizialmente doveva chiamarsi Ghisa e Contrabbasso, perchè univa le location scledensi dell’archeologia industriale  – altra mia passione, dai tempi del master all’Università di Padova, in conservazione del patrimonio industriale – alla parte musicale che in un primo momento fu preponderante) venne portato avanti con MG.
Poi si insinuò l’arte, “Contrabbasso” fu estromessa quasi subito a favore di un più ampio “art fusion” e Alessandro Giacomelli (che al tempo era il mio compagno e che non smise mai di prendersi cura della grafica dei miei progetti) ideò uno dei loghi più belli di sempre, realizzato pensando alle strutture in ghisa dell’Iron Bridge, il ponte che attraversa il Severn. Uno dei più antichi ponti in ghisa del Regno Unito, il simbolo dell’evoluzione della tecnologia protoindustriale, che aveva una trama, nelle nervature che sorreggevano il suo arco di 30 metri, che ci piaceva moltissimo. Hzg, con quel logo, realizzò sulle borse di cotone delle serigrafie perfette, in un grigio cupo che ricordava proprio il tono del metallo.
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Durante i tre anni di GHISA passarono per il Lanificio Conte, lo Shed, il Giardino Jacquard e Fabbrica Saccardo moltissimi artisti, pittori, scultori, incisori, fotografi, musicisti, performer, che a nominarli tutti rischierei di fare un elenco troppo lungo per un post come questo. Ma credo che molti di voi ricordino le splendide domeniche sera passate a Schio in nostra compagnia a scoprire, passo passo, la rassegna che evolveva.

Jennifer rosa a GHISA del 2013

Jennifer rosa a GHISA del 2013

L’amicizia con Mattia Stella portò al coinvolgimento di Metamorfosi Gallery all’interno degli eventi che portarono Vicenza, nel 2013 al primo Vicenza Pride. Ci furono quattro piccole ma bellissime mostre, per la rassegna Art Coming Out, che vennerò ospitate nei bar del centro storico di Vicenza, per cominciare a parlare di omossessualità in termini meno criptici o banalizzanti, ossia attraverso il linguaggio incisivo e allo stesso tempo delicato dell’arte. E poi la grande mostra al B55, la collettiva alla quale aderirono artisti da tutta Italia: Io sono diverso. Cristina Maraschin per quell’occasione aveva seguito tutta la grafica, ideando il logo che divenne, anche in questo caso, un simbolo che sa rimanere nel tempo, a memoria della partecipazione di MG ad un evento così importante per la nostra città.

L'inaugurazione di IO SONO DIVERSO, 2013

L’inaugurazione di IO SONO DIVERSO, 2013

E poi venne il tango. Dopo aver appeso al chiodo le scarpe delle danze scozzesi (lo so, in pochi di voi sanno questo aspetto del mio passato) mi gettai anima e corpo in quel ballo malinconico e intenso, che si crede di ballare in due, ma in realtà è in grado di mettere in comunicazione con se stessi in un modo così profondo da sconvolgere.
Al solito, la mia passione non è in grado di rimanere solo mia. Devo coinvolgere chi mi sta attorno nel vortice. Pertanto, prima portai più di un amico ai corsi, qualcuno fuggì subito, altri – come Caterina – rimasero e ancora condividono con me questa vocazione. Ma poi (ancora Dueville) l’occasione di avere il Busnelli Giardino Magico a disposizione era un’attrattiva troppo grande per non voler organizzarci una milonga. Detto, fatto: l’ideazione di Nocturna Tango. Che quest’anno è arrivata alla quarta edizione, e nel frattempo si è spostata da Dueville a Vicenza, dagli amici del Bocciodromo che hanno accolto la rassegna a braccia aperte (alla quale ha contribuito con un aiuto prezioso Luisa Sabbatini), e ha fatto suonare ottimi musicisti e valenti musicalizadores, esposto mostre sul tango, fatto assaggiare piatti argentini, proiettato film a tema, fatto ascoltare ottima musica e fatto ballare centinaia di ballerini.

Nocturna Tango al Bocciodromo nel 2014

Nocturna Tango al Bocciodromo nel 2014

Ma ora. E’ cambiato il vento. Lascio Metamorfosi Gallery. Bye bye Ulay.
Provo a immergermi, attraverso Olivares cut (il mio personale “baule”, come quello con le opere d’arte che trascinavo per gli aeroporti di mezza Europa), immergermi ancora più profondamente nell’arte, provo a prendermi cura ancor più professionalmente di quanto sia stata in grado di fare finora degli artisti e della loro arte. Perchè (lo ribadisco a me stessa, sempre) avere un contatto con un artista non significa avere un numero di telefono in agenda. Ma significa guadagnarsi la fiducia attraverso la professionalità, dedicando il giusto tempo al lavoro di ciascuno, alla conoscenza del percorso artistico di ciascuno. E questo avviene tanto in uno studio quanto al di fuori, anche di fronte a un caffè o a un bicchiere di vino, portando l’arte dentro una quotidianità imbevuta di questa urgenza (nel senso di passione incondizionata) di fare, di curare, di fondere l’arte con il quotidiano.

Il ringraziamento, dovuto, va ai numerosi compagni del viaggio che per un po’ del mio percorso ha preso il nome di Metamorfosi Gallery, in primis Angela ed Elena.

Io continuerò a tenervi aggiornati dei miei spostamenti. Quasi sempre è per raccontare a voi. Ma sappiate che talvolta lo faccio per non permettere a me stessa di dimenticare.

 

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