(Un estratto di questo post è pubblicato su ARTRIBUNE)
The inner outside (bivouacs) apre al Nuovo Spazio di Casso la stagione espositiva 2014-2015 di Dolomiti Contemporanee con una collettiva, a cura di Gianluca D’Incà Levis, che propone diversi piani di lettura del concetto di bivacco. Bivacco che non è contenitore ma propensione (mentale, ancor prima che fisica) alla permeabilità, è condizione minima necessaria all’idea di protezione.
Al tempo degli “scout”, usavamo erroneamente l’espressione “fare azimut” per giungere da un punto A ad un punto B attraverso il percorso più breve possibile. E, se la geometria ci insegna che la raffigurazione di questo percorso ottimale è la linea retta, compiere nel mondo reale questo percorso è quasi sempre improbabile.
Questo esercizio di attraversamento lo compivamo con costanza e tracotante determinazione in tenera età, “scoutini” su per le montagne, zaino in spalla, tirando dritti come dei muli coi paraocchi a tagliare di netto i tornanti. Spesso ci si arrampicava come si poteva, sorreggendosi ai rami delle piante che ci si paravano davanti, affondando le mani nude nella terra smossa, valicando massi puntuti con i nostri scarponi pesanti. E nel fermarci a passare la notte, in uno di questi “azimut”, si intentava un bivacco come si poteva. Niente radure, niente pianori, così ci si accontentava dello spazio del sentiero appena battuto, e con qualche paletto puntato a sghimbescio su terreno, una cerata o un poncho come copertura e qualche buon metro di cordino a fermare il tutto, ci si apprestava a passare la notte con un occhio aperto e uno chiuso, con le orecchie tese ad ascoltare i rumori del bosco, cercando di riposare seppure stesi su una superficie nemmeno lontanamente piana, nemmeno lontanamente comoda.
L’iconografia di un bivacco non è semplice da definire: i giacigli su cui riposavano le truppe che nell’antichità e durante il medioevo scorrazzavano per mezza Europa talvolta non prevedevano alcun tipo di copertura. Gli uomini giacevano sdraiati a terra, fianco a fianco, coperti dei soli vestiti aspettando che facesse chiaro per ripartire. Gli accampamenti più organizzati disponevano di tende, e assumevano le fattezze di piccole città ordinate. Ma che si sia in guerra o, più verosimilmente qui, in alta montagna a battere sentieri in quota, l’istinto a proteggersi porta a ricreare una nicchia entro la quale stare, un ambiente essenziale, la ricerca dell’idea di interno che differisca da un esterno che è “altro”, un luogo dove ritrovarsi, come si stesse nel grembo materno.
Il Nuovo Spazio di Casso (NSDC) è un luogo permeabile. Grandi vetrate si aprono a nord, verso il paese, e a sud, verso il poderoso Monte Toc e, soprattutto da questo versante, il verde delle pendici, l’aria – che porta con sé il sentore di erba tagliata e umidità di sottobosco – entra nelle stanze vuote, fondendo e confondendo il dentro con il fuori.
Arrampicate sulle pareti delle sale, rimaste sgombre per tutto l’inverno, ora ci sono le “carte animate” di Denis Riva: artista di origine emiliana, Denis ha portato a Cas i suoi lavori da Follina, dove vive e lavora, nel verde della campagna, “in una specie di comune, ma più bella”.
Gianluca D’Incà Levis, curatore dell’esposizione l’ha pensata assieme all’artista, e nei tre giorni di allestimento che sono stati di gestazione dell’idea di mostra, l’ha resa concreta, assemblandola piano, un pezzo alla volta. Cambio di muta (che apre la stagione estiva di mostre di Dolomiti Contemporanee all’ombra del Toc) è un gioco di linee a sghimbescio: Denis Riva ha vestito lo spazio con il suo immaginifico microcosmo dipinto. É un universo su carte usate – dai bordi irregolari, già intrise di un loro vissuto, già sporcate dalla luce che le ha ingiallite, già mosse da pieghe fatte e disfatte un’infinità di volte – che Denis tiene come fossero mappe su cui orientarsi attraverso la propria esistenza. E questi, che a chiamarli supporti si rischia di svilirli, sono animati da esseri ibridi, un po’ animali, un po’ vegetali, un po’ umani. Personaggi bidimensionali, silouette di loro stessi, che sembrano, in molti casi, fluttuare mollemente tra le carte, incollate l’una all’altra a comporre racconti muti che si svolgono nello spazio come rotoli di pergamena. Fluttuano, perchè la loro stessa composizione è un fluido: alla mia domanda che interroga l’artista sul medium usato per i suoi dipinti, mi sento rispondere che quello che compone i lavori è un “intruglio” che Denis chiama il suo “lievito madre”: un’acqua senza fine, che mischia i pigmenti di colore, li lascia decandare finchè non arriva un pennello a scuotere il fondo del contenitore e cambiare le sorti del torbido, impedendo all’artista stesso di sapere esattamente quale tono uscirà, una volta che le setole si poseranno sul foglio.
Al piano terra del NSDC una carta di sei metri compone Dopo l’incendio. I rami spezzati e i tronchi, del colore del carbone, si confondono con le bruciature che segnano vistosamente la carta e, nella penombra della sala, sembrano echi distanti di un disastro annunciato. Il dialogo con l’esterno incombe sempre, non è mai dimentico.
Ma è nel secondo piano, bagnato della luce calda di giugno che entra dalle finestre, che si sviluppa il cuore dell’esposizione. Tutto ruota attorno alla carta che noi abbiamo affettuosamente soprannominato “il grande sasso” ( Sasso 1:1, dipinto su un’improbabile quadrato di quasi tre metri di lato): su una sottile striscia di terra dipinta si appoggia questa grande presenza grigia, pennellate stratificate come ere geologiche, dripping a vivacizzarne la china. E tutt’attorno il bianco (che non è bianco) della carta “di recupero” sulla quale la montagna prende forma. Nel riuso dei materiali in una necessità che oscilla tra l’ecologico, il vintage e il bisogno di radici, si basa molto del lavoro di Denis Riva esposto qui.
Senza soluzione di continuità, piccoli paesaggi, dipinti su cartoncini rettangolari, corrono lungo la parete alla sinistra del grande sasso, svoltano l’angolo e…collegano la montagna dipinta con la montagna reale: il Toc entra letteralmente dal vetro, è talmente subito lì fuori che sembra di poterlo toccare, solo allungando una mano oltre la piccola balaustra. É un’emozione forte, raddoppiata. Ancora a mescolare l’esterno con l’interno.
Cambio di muta è il seguito di un lavoro iniziato dall’artista nel 2013. L’inverno scorso Denis Riva ha dato alle stampe una raccolta di disegni a china intitolata Muta Invernale: lo splendido catalogo è muto. Nessuna scritta, nessuna didascalia alle opere, nessun testo a spiegare il lavoro, se non il rilievo bianco del titolo in copertina, di una carta pregiata, come l’interno. Le “incisioni mancate”, le chine che stanno sulla parete che guarda in faccia il Toc, fanno parte di questa nuova fase: sono delicati disegni neri, resi ancora più suggestivi dai titoli (che in questa mostra accompagnano tutti i lavori esposti) scritti a matita in un angolo delle carte, come a non voler disturbare nulla con la loro schematica presenza. Confidenze silenziose, Ascoltare è importante, Morte apparente…sembrano storie illustrate a una scena. I personaggi che li popolano diventano essi stessi parte del paesaggio: conigli ai quali spuntano rami, uomini con al posto del capo grossi pennuti, sassi-teste su cui vivono colonie di piccoli corvi (o come nel “legno” trittico Trasporti eccezionali, nascosto dalla chiocciola di scale del piano terra, nel quale è un sasso-testa di cane ad essere trasportato da indaffaratissimi polli con la testa di lupo e la coda di volpe).
E una Catasta di legna arsa, che sembra essere stata raccolta dal bosco dipinto del piano di sotto…
Sempre su questo piano, la stanza “voliera” che contiene Bird Trip espone un’ordinatissima scacchiera di uccelli-macchia. Sgargianti pennuti senza piume, solo colore che si espande tra la trama e l’ordito dei rettangoli di cellulosa su cui stanno appollaiati.
La videoinstallazione H5N1, invece, è situata in uno stanzino all’ultimo piano del NSDC: il suono che percuote le casse lo si sente fin dall’ingresso, tre piani più in basso. Il video riprende l’azione performativa di Denis – un dripping impazzito dal quale escono in piano sequenza sempre nuove immagini di uccelli dipinti – e tiene il ritmo sincopato del pezzo musicale che lo scandisce. Vero lavoro di rottura rispetto al silenzio, e all’apparenza di estrema delicatezza nel gesto, che sembrano rivelare i disegni esposti fin qua.
Per concludere, un balzo indietro: sul pavimento della sala centrale, è posato un cameo dalla mostra (sempre curata da DC) et un’oseliera et non vi è. Al Castello di Andraz Denis Riva aveva esposto Andraz – sogni, rocce, tempi, un libro d’artista realizzato durante la residenza dolomitica del 2013, in realtà un album fotografico interamente dipinto su ispirazione dell’esperienza vissuta a contatto con la natura. Alcuni di questi disegni hanno tutto l’aspetto delle macchie di Rorschach. Che cosa però, noi li accucciati a terra a sfogliare queste spesse pagine increspate, vogliamo leggerci, in quelle forme dipinte, a nessuno – tranne che a noi stessi – sarà dato sapere…
La mostra Cambio di muta, inaugurata il 12 giugno, è aperta fino al 12 luglio 2014.
Per visitarla è necessario prenotare: info@dolomiticontemporanee.net / tel. 0427.666068
Immagine iniziale: dalla serie BIRD TRIP. Tutte le immagini sono su gentile concessione dell’artista e di Dolomiti Contemporanee / * foto di Sergio Casagrande/
L’amore di una vita se ne va di casa e io compro due pesci rossi. Dora e Pablo. C’è da stupirsi di come due esserini guizzanti, dentro una bolla di vetro piena d’acqua quasi sempre sporca, siano in grado di tenere compagnia. E di non fare domande indiscrete.
Misi nome ai piccoletti come quelli di uno dei più grandi geni dell’arte del XX secolo, Pablo Picasso, e come l’unica donna forse degna di essere ricordata (o di cui io voglio ricordare) tra le numerose che affiancarono l’incommensurabile artista nella sua lunga vita: Dora Maar. Ai tempi del liceo avevo studiato a fondo la storia di Guernica (il dipinto che Picasso realizzò nel 1937 per commemorare il bombardamento della cittadina basca da parte dell’aviazione nazi-fascista, facendo strage di civili) e in quell’occasione avevo scoperto chi fosse, in realtà, Dora. Lei gli era accanto in quella fase di ritorno alla pittura (dopo due anni di vuoto creativo) e testimoniò tutte le fasi di realizzazione del dipinto attraverso uno splendido ed esaustivo reportage fotografico.
Dora non fu né moglie di Picasso (a differenza di Olga, la ballerina russa dell’entourage di Diaghilev) né madre di alcuno dei suoi figli. Non poteva averne. Forse non fu nemmeno una delle sue più appassionate conquiste amorose, da consumare tra le lenzuola, ma fu certamente una donna che seppe dargli del filo da torcere, intellettualmente. La sua, forse unica, compagna, nel senso più alto (e paritario) del termine.
Quando si incontrarono, a Parigi, al locale chiamato Deux-Magots – il ritrovo preferito dai surrealisti – Picasso aveva 53 anni e Dora 28. A presentarli fu l’amico comune, il poeta Paul Éluard: la sera in cui si conobbero Pablo rimase affascinato dalla risolutezza con la quale Dora stava compiendo un gioco macabro. “Sfilatisi i guanti – neri, con un delicato ricamo di rose – aveva preso un coltello affilato e, posando sul tavolo l’esile mano affusolata dalle unghie rosso rubino, aveva cominciato a colpire, via via più rapidamente, il legno tra un dito e l’altro. A un certo punto, per un movimento sbagliato s’era ferita, ma aveva ugualmente continuato il gioco, mentre la mano si copriva di sangue”.*
Dora Maar, al secolo Henriette Theodora Marković, di origine franco croata, con quella chioma folta di capelli neri, il mento appena sporgente in avanti e uno sguardo fiero, severo, lei così indipendente e libertina, non seppe (o non volle) resistere alle malie del grande Picasso. Ma stare a fianco di uno degli uomini più affascinanti e smaccatamente donnaioli dell’Europa del secolo scorso non fu un’impresa facile, e Dora ne subì, suo malgrado, le conseguenze.
Ma procediamo con ordine.
Scoprire cosa si cela all’interno di uno studio d’artista non è sempre così semplice. Spesso questi sono luoghi suscettibili del “senso dell’ordine” di chi ci crea all’interno, inavvicinabili dai “non addetti ai lavori”, frequentati dai suoi avventori ad orari improbabili, semisconosciuti…
Olivares cut assieme a The Soul in The Mirror (alter ego della blogger Teresa Francesca Giffone) provano a trasmettere la loro curiosità alla città di Vicenza. Abbiamo rivolto a diversi artisti l’invito a partecipare alla “puntata zero” di OPEN STUDIO, e al pubblico vicentino di avventurarsi tra opere d’arte e artisti disposti a far conoscere il proprio lavoro.
OPEN STUDIO zero > OGGI DOMENICA 11 MAGGIO
Dalle ore 16 alle 20 gli spazi sono aperti al pubblico a ingresso libero.
Durante tutto il pomeriggio si susseguiranno alcuni eventi. Questo il programma completo:
SARTORIA LARA COSSÈR – Contrà San Marco 39
Lara Giuriati presenta una capsule collection di abiti studiati su alcune campionature di Mirella Spinella. Enrico Larese Filon curerà la selezione musicale.
Manuel Pablo Pace espone alcuni lavori della sua più recente produzione artistica.
SPAZIO 6 – Contrà San Pietro 6
Lo spazio, sorto nelle stanze dello storico studio fotografico di Attilio Pavin, propone dalle 10.30 alle 16.30 una MARATONA FOTOGRAFICA alla quale ci si può iscrivere in loco.
18.30 Inaugurazione della mostra fotografica GENIUS LOCI di Marco Fogarolo.
DER RUF – Contrà Porta Padova 89
Nello studio dall’atmosfera berlinese Patrizia Peruffo esporrà i suoi taccuini di design, mentre Giusto Pilan presenterà la sua ultima produzione pittorica e di incisioni.
17.30 Mirko Cremasco presenta “VIAGGIO”, performance con voce narrante e istallazione.
INCIPIT – Strada Ponti di Debba 5
Questo splendido open space di retaggio industriale ospita gli studi di Andrea Garzotto, Bruno Lucca, Daniele Monarca e Valentina Rosset.
Per l’occasione il Collettivo Jennifer rosa (esule per un giorno dallo spazio VOLL) presenterà in anteprima la proiezione della videoinstallazione “GEMELLI” (in loop per tutto il corso della giornata).
19.30 “IL CERCHIO E IL LUPO”, spettacolo teatrale di Davide Dal Pra
PER INFO: 348 0435597 / 349 8417314
OPPURE scrivere a petra.cason@gmail.com / tfgiffone84@gmail.com
Da “The Soul in The Mirror”
APPROFONDIMENTI SUGLI SPAZI
APPROFONDIMENTI SUGLI ARTISTI
Manca poco meno di una settimana alla chiusura di una delle più belle mostre esposte a Vicenza negli ultimi mesi e pertanto vi dedico la mia Top Five, le mie cinque fotografie preferite tra le molte esposte. Forse non saranno le più belle, forse ne avrei potute scegliere altre. Ma si sà, le Top Five sono così: ne devi scegliere solo cinque. Come faceva il protagonista di Alta Fedeltà di Nick Hornby. Ve lo ricordate?
E stavolta ho scelto queste.
Magnum Contact Sheets. In mostra, per riassumere brevemente, foto più o meno famose con a fianco i corrispondenti (semisconosciuti ai più) provini a contatto, foto 1:1 che mostrano un primo sviluppo dei negativi compiuti dal fotografo, dai quali si fa la selezione delle immagini da tenere: per un servizio, una pubblicazione, una mostra… I fotografi scelti sono pezzi da novanta, tra le fila dell’agenzia Magnum, una delle più importanti al mondo, nata nel 1947 in forma di cooperativa spontanea per tutelare i diritti e il lavoro dei fotografi stessi. Scatti dal 1936 al 2010, un excursus storico documentaristico di respiro internazionale.
E ora, via con la Top Five.
Quinto posto: DALÍ ATOMICO di Philippe Halsman
Fotografo di origine lettone, prima di finire in Francia a lavorare per Vogue Halsman aveva studiato a Dresda ingegneria elettrica e si era fatto qualche buon anno di carcere con accusa di omicidio (pare infondata) per la morte del padre. Dagli anni Cinquanta cominciò a produrre ritratti inconsueti, di persone famose, alle quali chiedeva di saltare mentre scattava. La serie di immagini che ne uscì, e si compose in qualche decennio, era intitolata Jump – e Jumpology la “teoria” che in seguito venne costruita sul suo lavoro: disinibire le pose che la vita ci insegna a mantenere per non lasciar trasparire dall’espressione del viso le emozioni. Un salto non ti permette di mentire: e così gli scatti riuscivano a mettere a nudo le ambizioni, le timidezze, forse il vero carattere dei soggetti ritratti.
Ma il salto di Dalì, il pazzo surrealista, uno che era abituato a fare ben altri salti (come ad esempio lanciarsi dalle scale o dalle finestre “per vedere l’effetto che fa”), nello scatto di Halsman mostra qualcosa di meno scontato: più che la Jumpology del fotografo mette in scena (in un altrettanto surreale teatrino fatto di 6 ore di tentativi, 28 lanci di gatti e altrettante secchiate d’acqua, sangue e sudore di quattro assistenti, di Yvonne la moglie di Halsman, del fotografo e di Dalì stesso) la direzione verso la quale la pittura stessa di Dalì si stava dirigendo. La doppia esplosione atomica del 1945 aveva colpito Dalì al punto tale da fargli virare drasticamente il suo modo di fare arte, avviando una reinterpretazione dei legami tra le cose del mondo secondo i principi che uniscono (o scindono) tra loro gli atomi. Infatti, il dipinto che a malapena si vede a destra della foto è il “manifesto pittorico” della poetica daliniana che si può sintetizzare in “mistica atomica”, Leda Atomica: un approccio fisico e scientifico allo scibile, filtrato da un’introspezione in bilico tra il religioso e il superstizioso, con un recupero palese dei dettami rinascimentali nelle forme e nelle strutture compositive.
Ecco, ora vedeteci molto più di un’incredibile acrobazia. (P.s. è pellicola. Non esisteva photoshop. Scordatevi la postproduzione.).
Quarto posto: INVASIONE DI PRAGA di Josef Koudelka
Quel polso che si sporge, in primo piano, sulla strada di una Praga deserta, non so dirlo se fosse quello di Josef Koudelka, l’ingegnere aeronautico che decise di rendere testimonianza a ciò che stava avvenendo nella sua terra attraverso un mastodontico reportage dell’invasione di Praga. L’orologio riporta l’attenzione al tempo, congelato per sempre nell’immagine fotografica, di un giorno da dimenticare nell’attesa che i carriarmati russi entrassero a distruggere il vento fresco di liberalizzazione che la Primavera aveva portato nella capitale cecoslovacca, in contrasto con le restrizioni dettate dall’impero sovietico.
Koudelka in pochi giorni, nell’agosto del ’68, scattò all’impazzata un numero impressionante di fotografie. Usò pellicola da cinema, anzichè quella fotografica, perchè costava di meno. A Koudelka, che al tempo non era un fotografo di professione ma divenne un esempio per i fotoreporter venuti dopo di lui, questo gigantesco lavoro di documentazione costò l’esilio forzato dalla sua terra per oltre vent’anni, l’abbandono dei propri genitori che lo videro una sola volta dopo la sua dipartita, e una fama che gli venne giustamente attribuita, seppure a posteriori, da parte di Magnum. L’agenzia si mise sulle sue tracce finchè riuscì a scovare l’identità del “fotografo praghese”, che così aveva firmato i numerosi scatti giunti fortunosamente sulle scrivanie dell’allora presidente Elliot Erwitt. Dopo Quarant’anni venne pubblicato un libro che raccoglie tutti gli scatti più importanti realizzati in quell’occasione, che commuove Koudelka ancora oggi, mentre lo sfoglia.
Terzo posto: 11 SETTEMBRE 2001 di Thomas Hoepker
Quando il primo aereo andò ad infilarsi dritto come un fuso dentro ad una delle due Torri Gemelle nel cuore di una radiosa New York, Hoepker si trovava nel versante cittadino opposto al Word Trade Center. Lo chiamarono da Magnum: doveva muoversi, per andare a raccogliere testimonianza di ciò che stava avvenendo. Hoepker si precipitò per le strade di Manhattan in auto, tentando di avvicinarsi – invano – il più possibile alla zona che in seguito fu ribattezzata “Ground Zero”, ormai presidiata dalla polizia. Costeggiando l’East River, continuando a tenere d’occhio il fumo all’orizzonte che si alzava alto sopra le sagome dei grattaceli, si fermò a una piazzola di sosta, a scattare, dal finestrino dell’auto, il cielo azzurro di quella luminosa mattina di settembre coperto da una spaventosa nube grigia.
Il giorno dopo, negli studi di Magnum, le diapositive di Hoepker parevano ben poca cosa di fronte a quelle dei colleghi che si trovavano al momento della tragedia proprio sotto le Torri. Ma a distanza di alcuni anni i suoi scatti vennero ripresi e rivalutati, e questo sotto, in particolare, divenne una delle foto più conosciute e discusse di Hoepker. Perchè qui le Torri sono “relegate” al background, ma in primo piano non ci sono solo dei giovani seduti a chiacchierare. C’è l’emblema di un’America bella e invincibile, che niente doveva temere, colta nell’attimo prima di prendere consapevolezza dell’accaduto, quando capisce di trovarsi di fronte alla fine di un’epoca che nessun capitalismo potrà più riconsegnarle.
Secondo posto: CARNIVAL STRIPPER di Susan Meiselas
Susan trascorse le sue estati tra il ’72 e il ’75 girando mezza America con l’idea di scattare fotografie alle ragazze che, per sbarcare il lunario, si spogliavano negli spettacolini che popolavano le piccole città del New England, Pennsylvania, Sud Carolina. Meiselas non fotografò solo le “ballerine”, ma anche i gestori di questi improbabili carrozzoni, i clienti paganti e i fidanzati delle ragazze, facendone uscire un quadro decadente, un po’ kitsch ai nostri occhi, ma anche con un suo fascino, allegro a tratti.
La fotografa sviluppava i negativi ogni settimana, ma accadeva a volte che, quando tornava a bussare alle porte dei camerini della carovana per regalare alle ragazze alcuni loro ritratti, non le aprisse nessuno, perchè da un giorno all’altro queste avevano la buona abitudine di scappare con qualche “fidanzato”, chissà forse inseguendo il sogno americano, forse solo un futuro diverso.
La foto che preferisco è questa sotto. Non è stata scattata durante uno degli spettacoli, ma nell’intimità del camerino, quando le ragazze si preparavano allo specchio, o si riposavano tra uno spogliarello e l’altro fumando e chiacchierando, dimenticandosi che Susan era lì con loro e scattava con la sua Leica portatile, ritraendo i loro corpi svestiti quanto le loro espressioni stanche.
Primo posto: SABINE di Jacob Aue Sobol
La ragazzina paffuta delle foto è Sabine, la fidanzata di Sobol. Di origini danesi, Sobol andò in Groelandia nel 1999, per fotografare il villaggio sperduto di Tiniteqilaaq. Doveva rimanerci solo per qualche settimana, invece durante quel soggiorno conobbe Sabine, e si innamorò di lei. Tornò in Groenlandia alcuni mesi più tardi, e ci restò per i due anni successivi, diventando cacciatore e pescatore. In quel periodo la macchina fotografica la usò soprattutto per ritrarre la sua amata, che fa le facce strane di fronte all’obiettivo, che si passa sul corpo nudo una pezzuola di pelle di foca, che accende delle candele sopra il davanzale della finestra per sciogliere il ghiaccio all’interno dei vetri. Mentre disegna un cuore con le due mani davanti al suo volto.
Mi provoca una fitta tutte le volte che la guardo. I due si lasciarono, alla fine. E le foto scattate nella scarna camera da letto sepolta tra i ghiacci artici, sui materassi di gommapiuma a fianco dei fucili per ammazzare le foche, odorosi del merluzzo bollito che la madre di Sabine preparava ai due per colazione, divennero la “memoria del cuore”, come disse Sobol in un’intervista fattagli ad Arles alcuni anni più tardi, durante il Festival della Fotografia.
Un libro pubblicato nel 2004, e intitolato semplicemente “Sabine”, racchiude la loro storia d’amore in bianco e nero, adagiata nel racconto più ampio della complessa e semisconosciuta cultura groenlandese.
Ecco.
MAGNUM CONTACT SHEETS. Gallerie di palazzo Leoni Montanari. Contrà Santa Corona 25, Vicenza.
La mostra è aperta fino a domenica 11 maggio, dalle 10 alle 18.
Non capitate a Palazzo Leoni Montanari dopo le 17.30 però. Perchè non vi faranno entrare neanche se canterete in turco.